Lady Bird guarda avanti, fino a New York, meta universitaria che condensa i sogni di libertà e di possibilità che i suoi diciassette anni le negano, ma nel farlo non calpesta il proprio presente fatto di amicizie superficiali, banali riti di passaggio e battesimi sessuali. Christine prova tutto quello che la quotidianità le offre e intanto progetta la sua nuova identità. La finestra narrativa su questo scatto finale dell’adolescenza è offerta dallo scontro generazionale madre-figlia scandito in modo credibile e degno. Marion (Laurie Matcalf), la madre di Christine, è un ostacolo propositivo per sua figlia. La donna pone continuamente limiti ai programmi della ragazza, trincerandosi dietro motivazioni economiche e crudi bagni di realtà ma, così facendo, diventa agli occhi di Lady Bird il muro da superare, la briglia da cui divincolarsi, lo specchio in cui non rivedersi più.
La Lady Bird di Greta Gerwing sceglie per sé: odia la sua città e il nulla che vi accade, odia il suo nome e ancora di più odia il suo destino.
La regista, scegliendo uno stile dimesso e allineato al cinema indipendente più scarno ed efficace, allontana il film dalla cittadinanza americana e gli fa conquistare una portata cosmopolita, sostenendola unicamente con la storia raccontata e l’emozione comunicata. Appare difficile non rivedersi in un gesto, in un poster appeso o in quel desiderio di affrancarsi fieri fuori dalla gabbia provinciale. A questa riuscita presa spettatoriale contribuisce l’atmosfera nostalgica effusa dall’ambientazione temporale. Greta Gerwing elude lo sguardo attuale, 2.0, sugli adolescenti, portando indietro il racconto fino ai primi anni duemila per avere la possibilità di guardare i ragazzi in faccia, senza messaggi né chat, per concedersi il calore dell’empatia, della delusione e del pianto sincero.
Lady Bird guarda indietro e alla fine una telefonata avrà il peso della consapevolezza: quello che hai lasciato è quello che sei e quello che sei un giorno ti mancherà.