Ci troviamo nel 2003 in Kentucky, Warren Lipka e Spencer Reinhard sono due studenti del college di Lexington, amici fin dall’infanzia. Stanchi della vita di provincia poco entusiasmante, decidono di organizzare un colpo alla biblioteca della propria università. Nella quale si trova una sezione sorvegliata di testi antichi rari e pregiati. Come la prima edizione de “L’origine della specie” di Charles Darwin, ma sopratutto la preziosa raccolta di dipinti del pittore naturalista John James Audubon, “The Birds of America”. Con l’aiuto di altri due compagni, Eric Borsuk e Chas Allen, progettano un piano meticoloso per rubare i volumi e venderli nella rete del mercato nero del collezionismo d’arte.
“American Animals” si erige su un gioco a metà tra il racconto metatestuale scorsesiano e la ricostruzione documentaristica televisiva.
“This is not based on a true story. This is a true story”. Bart Layton con questo incipit ci prepara al meccanismo strutturale della narrazione. Dove in modo quasi spiazzante contrappone allo svolgersi della storia sequenze in cui i reali quattro studenti, ormai adulti, commentato la vicenda. Il regista lavora su un livello divincolante il film di genere e il documentario, mettendo in dubbio la veridicità di quanto ricostruito. Venendo da un background documentaristico, Bart Layton non scrive un classico biopic-thriller sull’accaduto, contatta direttamente i diretti interessanti, coinvolgendoli. “American Animals” si erige su un gioco a metà tra il racconto metatestuale scorsesiano e la ricostruzione documentaristica televisiva. Lo fa basandosi sull’inattendibilità dei ricordi dei reali ragazzi, e riflettendo sulla capacità d’illusione propria del mezzo cinematografico.
Il motore pulsante del film come ben esplicita il regista è: “La rivelazione di una generazione sempre più individualistica, cresciuta sentendosi ripetere che avrebbe avuto una vita interessante”. Il cinema da sempre è stato capace di trasmettere stili di vita e modi di essere ai suoi spettatori. E la bella favola di avere ognuno di noi una specialità, e di realizzare i propri sogni, ha contraddistinto la produzione americana sin dagli albori. Layton si pone in una posizione velatamente critica rispetto alla questione. Costruendo il suo racconto finzionale sulla base di stilemi tipici del cinema di genere. In gran parte il film segue la scia del classico heist movie, con un ritmo spasmodico figlio di autori come Soderbergh e Mann.
“American Animals” chiude la selezione di questa Festa del Cinema di Roma appagando gli animi.
Questo per esplicitare sia la natura non proprio veritiera delle testimonianze, e di quanto il cinema ha influenzato la spavalderia di questi animali da palcoscenico. Non a caso, mentre i quattro prenderanno più consapevolezza dell’elevata portata del colpo, il film prenderà una strada più tangibile. Tralasciando alla prima parte un formale virtuosismo registico e i toni in stile action. Layton, quindi, usa il cinema e i suoi linguaggi per raccontare un avvenimento inverosimilmente vero. Ma, concettualmente, divincolandosi tra i due piani realtà/finzione, fa una critica a quella società promotrice di un benessere catalizzatore di realizzazione. Warren, Spencer, Eric e Chas, sono invischiati in un sistema fuorviante. Per sfuggirne giocano a fare “Ocean’s Eleven”, senza scendere a patti con la propria mediocrità.
Chi sono gli animali americani? I quattro ambiziosi ragazzi, o chi tira le fila di una società assetata di successo e potere? Layton suggerisce, non detta lezioni, sta a noi trovare la risposta. “American Animals” chiude la selezione di questa Festa del Cinema di Roma appagando gli animi. Portando alla luce un potenziale autore di successo. Quanto sia vero o quanto sia falso, poca importa. Layton tende a documentare sagacemente una storia, tanto quotidiana quanto assurda. La sperimentazione riesce, rivelando quanto il cinema non abbia ancora esaurito le sue immense capacità di racconto.