Oggi sono ben lieto d’intervistare Francesco Leineri, talentuoso compositore e performer. Ciao Francesco, benvenuto sulle pagine di Music.it! Per cominciare, ti invito a raccontarci un aneddoto o un episodio particolarmente significativo che ti è capitato da quando hai iniziato a fare musica.
Il primo strumento col quale ho cominciato a relazionarmi alla grafia musicale è stato la tromba. Ricordo con molta tenerezza quando cominciai a improvvisare spontaneamente sulle note di un pezzo di Louis Armstrong, durante un noiosissimo saggio della band delle classi. Uno dei solisti, accortosi di quello che stava accadendo, mi invitò a espormi in proscenio per farmi ascoltare da tutti e così feci. Credo i miei compagnetti fossero attoniti e neanche io effettivamente accettavo la platealità di quell’avvenimento, per quanto gratificante fosse. Fatto sta che in passato ho sempre custodito questo ricordo con soddisfazione, forse anche con una punta di autocompiacimento, filtrato dagli occhi orgogliosi di un ragazzo che prova a diventare adulto.
Cosa ti è rimasto, di quell’evento?
Oggi ho più impressa nella memoria la complicità con quel ragazzo. Chiamarmi vicino a lui fu un atto di profonda generosità e umiltà, un’attitudine che nella mia quotidianità intercetto con enorme difficoltà. Non solo negli altri, ma anche nel me stesso dei momenti più bui. La complicità nata da quel mezzo sorriso, il più grande che incontra e scopre il più piccolo, facendo musica. Oggi è un monito per la mia integrità professionale, e anche e soprattutto umana.
“Se son ciechi fioriranno” è il tuo primo lavoro discografico, di cui custodisco gelosamente una copia. So che stai lavorando a un nuovo disco. Puoi dirmi qualcosa in merito?
Assolutamente no. Sono passati più di sei anni, ormai, dall’uscita di “Se son ciechi fioriranno”, per cui sarà un lavoro completamente diverso. Sono stato lento finora perché è davvero un’impresa titanica, e capirne il senso è stato difficilissimo.
La tua carriera di compositore si intreccia indissolubilmente al teatro. Hai realizzato colonne sonore per molti spettacoli, in alcuni dei quali sei stato anche protagonista. Ti senti più a tuo agio nelle vesti di Francesco Leineri compositore o performer?
Dalla musica di Igor’ Fëderovic̆ Stravinskij ho imparato tantissime cose. La più importante forse, che mi ha dato senso come compositore, è la camaleonticità. Nascondersi e trasformarsi per capirsi, per mettersi al servizio di un obiettivo chiaro, di un figlio che deve essere libero e autosufficiente. In quest’epoca troglodita credo sia più importante rendersi minimi. La scrittura mi aiuta a rinunciare a me stesso, per capirmi meglio. È un privilegio al quale è difficile rinunciare.
“Dreams of Dreams” di Officine Montecristo è uno spettacolo teatrale per il quale hai scritto partiture per strumenti non convenzionali, come il toy piano. Da allora, gli strumenti giocattolo sono elementi che non hai mai abbandonato del tutto. A cosa è dovuta questa scelta stilistica?
In fase adolescenziale suonavo la batteria in un gruppo punk. Credo che lo strumento giocattolo rappresenti una trasformazione di quella curiosità nei confronti della percussione: un incontro fra l’ancestralità del suono indeterminato e la quadratura di quello determinato, appreso e organizzato successivamente, grazie allo studio.
A proposito di studio, l’anno scorso hai concluso il tuo percorso presso il Conservatorio Santa Cecilia di Roma. Esperienza che immagino ti abbia demolito e ricostruito innumerevoli volte. Quali sono state le tue prospettive e sensazioni, una volta uscito dalla rassicurante ma logorante routine dello studio accademico?
Ti ringrazio per la domanda. Non credo sia cambiato poi tanto nella mia vita professionale. Ho cominciato a lavorare molto presto e da questo punto di vista non ho avuto tanto tempo per addormentarmi nel bosco. A scuola si studia per dieci lunghi anni, provando a scrivere come Tizio, come Caio, come Sempronio. È un processo lentissimo che spesso non ti fa vedere la luce in fondo al tunnel, non ti fa capire immediatamente la sua finalità. Cioè che si studia più per scoprire lentamente ciò che non si vuole, che per ottenere subito ciò che si vuole. Soltanto dopo tanti anni ho capito che la mia predisposizione a fare tutto il contrario di ciò che mi insegnavano non era fomentata tanto da indisciplina, quanto dalla necessità impulsiva di trovare frettolosamente la mia strada.
Come hai risolto il conflitto fra le limitazioni dello studio e la libertà dell’atto creativo?
Senza la scuola non avrei mai avuto gli strumenti per interpretare la nube creativa che ho dentro. Dall’altro lato è senza dubbio repressivo rimanere ancorati alla regolarità del processo di formazione. Come in tutti i percorsi di crescita credo che bisogna studiare tanto tempo, per poi dimenticarsi. La scrittura non sopravvive senza questo continuo processo di osmosi fra gabbia e libertà. È il motivo per il quale continuo a ricercare con metodo anche se ho concluso il mio percorso di studi. Per prendermi cura di questo vivaio seguo una vita decisamente surreale, che nelle sue contraddizioni me la fa maledire anche quando mi fa stare bene. È un paradosso, ma il mio rapporto con la tradizione è questo. Ammetto che sia complesso da digerire.
In “L’essenziale” hai riproposto classici della musica italiana riarrangiati per trio d’archi e strumenti giocattolo. Non stravolgendo l’originale in favore della modernità, hai reso onore al passato senza sbilanciarti e senza prenderti troppo sul serio. Ci sono brani che hai dovuto escludere a malincuore da questa rilettura?
Senza dubbio “Un’emozione da poco” di Anna Oxa. Non rientrava nel periodo della storia della canzone italiana che volevo studiare e che dovevo proporre. Ma è un pezzo che adoro e che trovo scritto e interpretato in modo superlativo. Mi accontento di cantarlo sotto la doccia.
Dell’attuale panorama musicale, quali sono gli artisti italiani e stranieri con cui ti piacerebbe collaborare un giorno?
Con Enrico Gabrielli per il modo intraprendente e sano con il quale vive la contemporaneità oggi – parafrasando Gustav Mahler – salvaguardando le tradizioni di varie matrici, senza adorarne le ceneri. E Vincenzo Vasi, per il suo eclettismo e la sua indiscussa visionarietà, fin dal paio di bevute che ci siamo fatti per caso a Bologna. Con Paolo Angeli per la sua sardità. Un semplice ma sincero apprezzamento – perché non so proprio come potremmo collaborare insieme – a Matteo Franceschini, un compositore che trovo enormemente al passo coi tempi.
Vivi a Roma ormai da più di dieci anni, ma le tue origini sono palermitane. Se la tua musica fosse una ricetta della tradizione culinaria siciliana, quale sarebbe?
Il pane con la milza maritato.
Ora voglio farti una domanda difficilissima. Se venisse scoperto un metodo per prolungare la vita a oltranza, dove ti vedresti fra 150 anni?
Ma chi ci vuole vivere per altri 150 anni?! Mi vedo serenamente, piacevolmente, definitivamente morto.
Grazie mille a Francesco Leineri per il tempo che ci ha dedicato. C’è qualcosa che vuoi aggiungere per concludere l’intervista?
No, spero che la musica possa aggiungere altro, di ben più importante. Magari nei mesi a venire. Sono fiero di questo e non vedo l’ora di liberarlo. Grazie mille!