Il limite di “Grâce à Dieu” sta tutto nella sua tenuità registica
Alexandre (Melvil Poupaud) vive con la moglie e i cinque figli a Lione. Un giorno scopre per caso che il prete, che aveva abusato di lui quando era un boy-scout, sta ancora lavorando a contatto coi bambini. A questo punto i ricordi a lungo repressi riaffiorano per trasformarsi in denuncia. Profondamente turbato, Alexandre trova finalmente il coraggio di procedere contro l’uomo. La ricerca delle altre vittime del sacerdote, che gode di grande rispetto all’interno della Chiesa; mette Alexander in collegamento prima con François (Denis Ménochet) e poi con Emmanuelle (Swann Arlaud). Ognuno di questi tre uomini sta lottando con se stesso in modi diversi. E ognuno di loro dovrà dare battaglia alle ombre del proprio passato per far fronte alle conseguenze violente del riaffiorare della verità. La creazione dell’’organizzazione di auto-sostegno “La Parole Libérée” è solo il primo passo.
Basato sul caso di Padre Bernard Preynat che nel 2016 fu accusato di aver abusato sessualmente di oltre sessanta bambini a Lione, François Ozon ritrae delle vittime ormai adulte per rivelare le ferite decennali che un uomo può serbare dentro di sé. Contemporaneamente il film lancia la sua accusa verso il silenzio della Chiesa sulla pedofilia al suo interno, e scava nei meandri della complicità perdurante del sistema ecclesiastico. È ancora in corso, infatti, il processo al cardinale Philippe Barbarin, accusato di non aver denunciato gli abusi sessuali. Il regista si muove tra questi due nervi del discorso, fondendo storie personali e architetture malsane del sistema religioso, per raccontare con l’incisività del cinema una storia che sembra non indignare mai, troppo preoccupato a far quadrare sempre tutto e con precisione. Il rischio lambito, e spesso avverato, è l’indifferenza per qualcosa che dovrebbe trovarci tutti dalla sua parte.
Il valore di “Grâce à Dieu” sta più nella sua compagine umana e meno in quella scandalistica
Inevitabilmente si è portati a credere che dopo “Il caso Spotlight” il vaso della pedofilia nella Chiesa fosse stato non solo scoperchiato, ma anche svuotato di tutto quello che andava detto. Ma il limite di “Grâce à Dieu” non è nel confronto con l’apripista hollywoodiano, ma piuttosto nella sua tenuità registica. Lo stile annaspa sotto il carico verboso fuori e dentro lo schermo. Dialoghi fitti pronunciati dai personaggi sullo schermo o recitati in voice-over mentre si leggono le mail e tutta la prolifica corrispondenza scambiata tra Alexandre e gli uffici della Chiesa. Si ritrovano in questo frangente sfumature grottesche che emergono dal confronto tra l’eccesso di formalità da parte della Curia e la tragicità della colpa. Lettere, mail, e preghiere imbellettate incapaci di silenziare o rigettare il rimosso di Alexandre, ancora un fervente cattolico e che decide di lottare dall’interno, non contro ma per la Chiesa.
Il valore di “Grâce à Dieu” sta più nella sua compagine umana e meno in quella scandalistica. François Ozon colpisce puntando lo sguardo sul lato umano del trauma, e ancor più optando per la costruzione ingegnosa di una narrazione a staffetta. Da Alexandre a François a Emmanuelle, la storia passa di mano per rivelare le diverse ripercussioni di un medesimo trauma. Inoltre, ancora meglio, si allarga fino a ricoprire la cerchia degli affetti per rivelare come il dolore di un’infanzia violata si riversi sui genitori, sugli amici e nelle relazioni sentimentali. Una moglie, un fratello e una compagna vengono ugualmente segnati da ciò che è capitato ai loro cari, ma in modo differente. Chi si recrimina il mancato sostegno, chi strenuamente ha tenuto la mano nei momenti difficili. Ma anche chi accusa la vittima di abuso di aver monopolizzato l’attenzione e gli affetti di tutti con il suo trauma.