Oggi su Music.it diamo il benvenuto agli Hoka Hey. Iniziamo l’intervista come da nostra usanza e raccontateci qualcosa di voi e del vostro rapporto con la musica.
Ciao Music.it! Grazie per questo spazio e per la curiosità. La musica è per noi un canale attraverso il quale far esprimere parti di noi che non riescono ad avere lo spazio, o lo fanno con fatica, nella quotidianità razionale che la proiezione collettiva impone. Sembrano paroloni, si possono sintetizzare con: la musica è parte della nostra esistenza e del nostro essere, in quanto tale, non riusciamo ad accontentarci di un lavoro normale, una casa, una fidanzata, la pensione. Per noi un concerto, ogni concerto, è una cerimonia. La vita senza cerimonie è un rito morto.
Hoka hey è il nome che avete scelto. Mi tornano in mente i film western e i pellerossa. Sbaglio ad avere questa impressione?
Più o meno ci sei. Siamo sempre stati dalla parte degli indiani, che trovavo più naturali, più veri, meno capitalisti alla riscossa mascherati da macho con il pisellino nei pantaloni e le pistole lunghe nelle mani. Hoka Hey! È il grido di battaglia di chi è guidato dalla volontà dello spirito. È il grido che hai quando vai a incontrare il tuo destino, con tutte le tue paure, e con quello che sei, e che hai, in quel momento. Quando le cose sembrano andare verso il peggio, resti in osservazione, ascolti il tuo respiro, raccogli le energie, e ti lanci con tutta la tua determinazione. Questo progetto è nato così, quando quasi tutti i nostri amici hanno rinunciato alla musica per diventare adulti, e hanno cominciato a mettersi il colletto bianco.
Non è una cosa che fa per voi insomma!
È il loro percorso, non il nostro. Noi ancora resistiamo, come cavallo pazzo. L’idea è venuta all’interno di una capanna sudatoria, quando stremati dal caldo, tiriamo fuori le ultime forze per urlare “Hoka Hey!” e aprire l’ultima porta, per rinascere nuovi e più forti. È una cerimonia, anche questa!
Il progetto Hoka Hey nasce un po’ da una costola del vostro precedente progetto, i Laika Vendetta. Il nucleo della vostra musica resta sempre il rock. Che cosa invece c’è di nuovo?
Di nuovo c’è che siamo in due e non in cinque, dunque non ci sono cinque teste e cinque espressioni diverse da armonizzare. Forse sarà meno ricco il disegno di insieme, ma c’è una comune direzione ed entusiasmo. Chi ama Laika Vendetta può ritrovarla, per due quinti, negli Hoka Hey!: eravamo onesti nei Laika Vendetta, lo siamo anche qui. Negli Hoka Hey! stiamo curando il progetto dall’inizio alla fine in due. Maku registra, ci occupiamo insieme della produzione artistica, lui è molto bravo a mettere in un ordine razionale la parte creativa. Poi si occupa anche del mix e del rapporto diretto con chi esegue il master. Rispetto ai Laika c’è più spazio per sperimentare e mettere cose particolari che vengono dal nostro mondo interiore, non ci sovrastiamo l’un l’altro.
E questo come si trasforma in musica?
Più sperimentazioni, e ci prendiamo meno sul serio, come quando abbiamo cominciato nei Laika Vendetta. Abbiamo la comune intenzione di tornare presto sul palco e di accorciare i tempi e i formati per una longeva produzione artistica. Abbiamo scelto anche una vita e dei lavori che ci permettono di dedicare molto tempo alla musica. Con i Laika Vendetta era diventato tutto molto serio e professionale, ognuno ha il suo percorso da seguire, e mettere insieme gli impegni di cinque persone, su cinque percorsi diversi, stava diventando molto difficile. Vogliamo mantenere la professionalità e la serietà del gioco iniziale, come quando abbiamo cominciato, concretizzare di più, sia nella produzione, soprattutto nel numero di concerti. Ci fanno bene.
Ci sono stati degli artisti e delle band che hanno influenzato questo vostro arricchimento musicale e che ascoltate con passione?
Crediamo che l’arricchimento sia dovuto alla maturità: quando cadono le etichette e ti accorgi che persino una melodia africana, una percussione indiana, un Icaro sciamanico al tamburo, possono ispirarti. Quando capisci che la musica è una necessità di espressione e un linguaggio estetico che non ha confini se non nella percezione di essa, allora tutto ti ispira. Sicuramente ci ha segnati tutto il punk e il rock ascoltato in adolescenza, e che ascoltiamo anche oggi. Maku ascolta le fisarmoniche di Radio Ciao e i canti popolari, Emidio Musica Medicina amazzonica. In comune Queens of The Stone Age, Royal Blood, Lewis del Mar, Manson. Chi ha ispirato, da sempre, è Jim Morrison. Come artista, come percezione, come melodie, come icona. Anche Bob Dylan, ma in maniera più distaccata. Morrison è dentro, con tutto il suo essere. In Italia, il maestro indiscusso, è Franco Battiato seguito da Giovanni Lindo Ferretti.
Il 3 maggio è uscito il vostro primo singolo “Gravità”. Il nome è quello di una delle leggi fondamentali della fisica. Perché lo avete scelto e come lo avete tradotto nel linguaggio musicale?
Fisica è il nome scientifico che diamo a ciò che conosciamo, poiché riusciamo a misurare. Esiste però una “fisica interiore”, un movimento interno, di emozioni, spirito e psicologia, che non riusciamo a misurare, e che quindi non è annoverata tra le scienze esatte. Questo la rende più interessante ai nostri occhi, dove è in scena la “fisica personale”, il racconto di un’esistenza e di una personalità. Una sfumatura unica e irripetibile. Viva la diversità! È lì che ci piace pescare, a destra (del cervello e non di politica, in quella di destra non ci abbiamo pescato e mai ci pescheremo). Quindi ogni concetto, ogni legge, è un’occasione per una lettura complessa e può mostrarci molte facce della realtà in cui è immerso ognuno.
Ad esempio?
Innanzitutto sorgono le domande. Questa gravità ci schiaccia quando siamo giù di morale. Ma ricorda la bellezza di vivere su questo Pianeta, quando si è in pace. Quindi la gravità può essere un concetto relativo, da applicare alla vita e alla quotidianità, per ricordarci di accettarla, perché esiste. Ma di danzarci insieme, e non di subirla. Così per quanto riguarda le nostre lotte, soprattutto quelle sociali. Non combattere la società con le sue armi, trova il tuo centro di gravità permanente, che ti permette di creare e trasformare danzando.
Il videoclip di “Gravità” è stato girato a Londra. Perché proprio questa città e cosa significa per gli Hoka Hey?
Londra rappresenta bene la Società Capitalista. Nei supermercati trovi cibi da tutto il mondo, per tutto il mondo. Bello? No. Sono cibi fuori stagione, che arrivano da ogni luogo, consumando tantissimo petrolio, frutti enormi, palesemente ogm. Tutti sognano Londra, e arrivati lì si finisce per fare i camerieri e i lavapiatti. Se ti va bene, puoi crescere lavorativamente, scalare la società per ritrovarti a lavorare tutto il giorno, anestetizzato, a vivere in un buco che paghi come una villa in affitto in abruzzo, a respirare sotto terra, in metro, a non sapere più chi sei e correre verso la pensione. Londra rappresenta in Europa, questa società. Non credo nel modo più assoluto a quei valori. Così è Milano, si diventa nevrotici e si cerca la provincia, il sole, l’aria buona.
Un po’ quello che racconta il videoclip.
Sì, questo è lo stesso motivo che ha spinto la danzatrice Sara Ciprietti a tornare in abruzzo. Siamo andati a trovarla a Londra, lì è nata “Gravità”, lì abbiamo deciso di creare una video cartolina del suo ritorno a casa. Per quanto riguarda la musica, abbiamo decontestualizzato gli slogan pubblicitari e utilizzati a nostro vantaggio. Lo strumentale invece è tra il serio e lo sfottò, mantenendo il sistema slogan anche nei ritornelli.
Cosa ci sarà dopo “Gravità”? Un album?
Ci piacerebbe. La verità è che stiamo producendo tantissimo, abbiamo materiale per circa due album. Per fare un disco però ci vogliono soldi. Per questo primo singolo abbiamo cercato di fare in casa il più possibile. Stiamo lavorando per mettere da parte qualcosa per riuscire a pubblicare una serie di Ep. Se le cose cambieranno siamo pronti a incidere due, tre, quattro dischi. Per ora, è in programma l’uscita di un Ep, ma non abbiamo ancora deciso quale singolo scegliere: siamo indecisi su un pezzo esplosivo, con tanto di fuochi d’artificio, o su una ballad a cui teniamo particolarmente. Intanto stiamo valutando se trovare un regista o se arrangiarci a modo nostro per il video. Servono un bassista e un batterista per i live, che abbiano la nostra stessa voglia di suonare e fanculo pensare alla pensione! Ci piace vivere così, precari e imprevedibili, come la vita.
Vi ringraziamo Hoka Hey per essere stati con noi e averci tenuto compagnia. Nell’attesa di sentire di nuovo la vostra musica, vi salutiamo e vi lasciamo l’ultima domanda come una tela bianca da riempire con quello che volete. A presto!
Grazie. Grazie. E grazie! Non è scontato né dovuto questo spazio, quindi grazie di portate avanti questo lavoro. Mi auguro che vi renda felici, che possa restare una passione che alimenta il fuoco dei vostri cuori e che vi porti tutti i soldi di cui necessitate. Un cantastorie, di qualunque tipo, sceglie cosa raccontare, e lo fa con e per piacere, con e per natura, e non deve dimostrare niente a nessuno, non è questo che lo muove. Restiamo cantastorie e paghiamo i buoni cantastorie: meglio storie e canti che allietano questa esistenza, che fanno sorgere le domande, invece di storie che ci avvelenano l’anima, impongono risposte e ci suggeriscono di vivere male e di trovare qualcuno a cui dare la colpa! A chi dare potere, lo decide ognuno di noi, portafoglio alla mano. Per quanto mi riguarda: Lasnivi Redma!