Una foto di scena de "Il Regno Profondo - Perché sei qui?".
Una foto di scena de "Il Regno Profondo - Perché sei qui?".

IL REGNO PROFONDO. PERCHÉ SEI QUI?

Per un’ora in cui nulla accade, si può anche perdere la freccia che indirizza il nostro pensiero. Siamo stati in un mare quieto di interrogativi che battono con la lenta ripetitività d’una liturgia bizantina, posti su\da una scena nera come il dubbio. Il lavoro di Societas è da sempre apicale nel restituire con onestà gli esiti di una ricerca linguistica e umana che ha spostato le sorti del teatro di sperimentazione, se mai la formula rendesse giustizia ad un teatro così potentemente necessario. “Perché sei qui?” è un atto de “Il Regno profondo”, ciclo metafisico composto da Claudia Castellucci che qui sposa la regia vocale e la recitazione di Chiara Guidi.

Le due appaiono in scena con la solida solennità di una colonna binata. Elevate su un palchetto, laconica asserzione di un qui ed ora, di un semplice luogo da osservare, intonano una litania rivolta ad un “tu” sovrano. Con voce unisona, usano la parola secondo il suo valore fonetico. E attraverso la fonetica ripercorrono il composto molecolare del linguaggio. La partitura è un susseguirsi di domande, che le attrici leggono da un quadernetto nero. Ma l’interrogazione non è tanto e solo un’intonazione del parlato, è la sostanza drammaturgica stessa che percorre e corrode il ri-volgersi ad un alto\altro che coinvolge il pubblico.

“Perché sei qui?” tocca il nostro essere bambini e il nostro essere filosofi. “Perché sei qui?” è infatti forse la domanda prima, tanto sostanziale da essere inscritta in ogni altra forma di interrogazione.

Lo coinvolge perché tocca quel senso di dubbio radicale che è tanto culturalmente proprio all’occidente figlio del pensiero filosofico, quanto alla memoria umana della condizione del bambino, che tutto chiede al mondo, nel suo costituirsi intorno a sé, per farne senso. E dunque “Perché sei qui?” tocca il nostro essere bambini e il nostro essere filosofi. “Perché sei qui?” è infatti forse la domanda prima, tanto sostanziale da essere inscritta in ogni altra forma di interrogazione. E non a caso non viene poi più proferita nel turbinio di punti interrogativi che innervano lo spettacolo, ma tanto più vi appare in controluce, esprimendo una meraviglia di fondo su cui l’inquietudine donata esegue un lavorio di decorazione del tappeto sonoro.

La presenza duplice di Claudia Castellucci e Chiara Guidi consente di verificare in fieri la natura dialogica della lettura. Dopo un iniziale moto unisono, le due voci si scoprono: il moto trascendente separa l’io totalizzato del bambino dal fuori-da-sé. Nel reciproco rivolgimento acquistano lentamente una tridimensionalità che non si fa mai prospettica. Due punti non possono che individuare una retta. Insieme al piano-palco segnano uno spazio minimo, in cui l’oggetto microfono compie un’indagine col suo treppiede, che, ribaltato, ricorda i tre assi cartesiani abbondantemente tracciati nei nostri quaderni di matematica. L’aura scolastica respira infatti potente nell’animo discente che Claudia Castellucci e Chiara Guidi incarnano, così come nelle severe divise a scacchi, nei compìti quaderni, nelle pose didascaliche, nelle caste acconciature da maestrine. Pienamente conseguente è la scelta re-citativa, che pone un testo già scritto per segnalare il sottostare ad una Volontà esterna e precedente.

Se vedi leggi. Per forza. Non è una scelta”. Viene così tracciato un percorso cosmogonico: dalla separazione dell’Io dal Tu, fino alla scoperta del logos.

Ogni riflessione ulteriore dovrebbe porsi in forma di domanda, per non racchiudere nella rigidezza del giudizio la meraviglia di una porta aperta su una luce inafferrabile. Luce che si comunica prevalentemente nel misterioso apparire del riso, inatteso, fra il pubblico. La gestione attoriale illumina infatti una possibilità comica non banale, ritagliata in spazi gestuali che fluttuano fra l’assurdo e lo slapstik. Di nuovo l’interazione col pubblico si accompagna ad un’attivazione mentale che segue l’esperienza: si ride, e per lo stupore del riso ci si domanda il perché della risata. D’altro canto è possibile parlare in generale di una dimensione commediale dello spettacolo. Per quanto la cupa tavolozza rafforzi l’inquietudine di un traforio incessante di punti interrogativi, non si avverte il facile nichilismo (anti)poetico di tanto teatro d’oggi. Sì sta, appunto, nella luce, che il nero della scena non fa che esaltare.

Per quanto la cupa tavolozza rafforzi l’inquietudine di un traforio incessante di punti interrogativi, in “Perché sei qui?” non si avverte il facile nichilismo (anti)poetico di tanto teatro d’oggi.

Due intermezzi pubblicitari demistificano apparentemente il registro teologale, ma finiscono per illuminare la forza dell’Assoluto nel messaggio capitalistico. Come gli occhi cerchiati d’oro del dottor T. J. Eckleburg ne “Il grande Gatsby”, la parola scritta si impone con la sua immarcescibile evidenza: “Se vedi leggi. Per forza. Non è una scelta”. Viene così tracciato un percorso cosmogonico: dalla separazione dell’Io dal Tu, fino alla scoperta del logos, che nella sua versione più acerba, appunto bambina, è usato come grimaldello per scardinare l’imperscrutabilità del Tu divino. “Se è vero che la tua volontà è essere liberi, come si può essere liberi da te?”.

Si procede poi fino a immergersi nella natura bellica dello scontro interpersonale, coi due corpi che, scopertisi integralmente, si fronteggiano. Un posato corpo a corpo che si gioca intorno alla più quotidiana delle formule comunicative, il “ciao”. Anche un semplice saluto nasconde la natura mistica e dolorosa del linguaggio. “Tu soffri le parole, oggi”. Con guizzo provocatorio, la scoperta del “ciao” contestualizza un finale che rende performativo il valore del testo. Ciao: buco nella tela superbamente composta della scena, corrosiva restituzione al tempo presente. Come due figure che prendono vita da un’icona e si staccano dal piano, Claudia Castellucci e Chiara Guidi escono dalla scena.

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