Una volta entrati nell’ottica del tipo di prodotto che hanno sfornato i Rainbow Bridge, bisogna esplorare bene gli aspetti che lo rendono unico. Il colpo d’occhio iniziale si ha quando si fa attenzione alla durata delle tracce, nettamente al di sopra della media. Ogni brano di “Unlock” è infatti una piccola opera in libertà, ricca di variazioni e dilatazioni, senza fronzoli inutili ma con molte soluzioni originali. Si passa dalla chitarra che svaria in tutte le direzioni formando dei tappeti melodici da affiancare alle percussioni incalzanti.
Senza cadere nei cliché hendrixiani i Rainbow Bridge confezionano dell’ottimo materiale dal retrogusto lisergico
Parliamo di un EP strumentale, in cui buona parte della comunicazione è affidata solamente alla musica e alle doti dei Rainbow Bridge. Prendono molto spunto dalla “dialettica” di Jimi Hendrix e questa è una di quelle derivazioni che oltre a funzionare sempre, è anche di ottima fattura. Senza cadere nei cliché hendrixiani, infatti, confezionano dell’ottimo materiale dal retrogusto lisergico. Una selva di chitarre, come dicevo prima, in cui è difficile districarsi ci si perde e non c’è nulla di male nel farlo. Gli ostinati sono una presenza fissa nella trama di “Unlock” e gli conferiscono quel tono psichedelico di cui sopra.
Ci troviamo quindi di fronte ad un album decisamente fuori dal coro della discografia mainstream italiana, ma che non deluderà gli amanti delle lunghe suite. “Unlock” è per certo un disco di grande valore compositivo, uno di quei lavori che fanno apprezzare gli artisti italiani anche all’estero. Un album che funziona proprio perché realizzato ascoltando il bisogno di produrre musica che hanno i Rainbow Bridge.