Una foto di scena di Stefano Vaja di "Un eschimese in Amazzonia". Da sinistra: Giacomo Marettelli Priorelli, Greta Cappelletti e Liv Ferracchiati.
Una foto di scena di Stefano Vaja di "Un eschimese in Amazzonia". Da sinistra: Giacomo Marettelli Priorelli, Greta Cappelletti e Liv Ferracchiati.

LIV FERRACCHIATI: “Il teatro è un modo per interrogare l’esistenza”

Diamo il benvenuto a Liv Ferracchiati sulle pagine di Music.it. Il tuo percorso è già costellato di traguardi notevoli considerata la tua giovane età. Come vivi questo momento di successo?

Non direi che il mio percorso sia costellato di traguardi. La logica sportiva nel teatro non ha senso e puntare a qualcosa distrae dal presente. Ci sono stati dei riconoscimenti, alcuni lusinghieri e ne sono grato, ma vivo il teatro come qualcosa di organico a me. Il teatro ha a che fare con la vita. È un modo di interrogare l’esistenza attraverso un potenziale, per tentativi, cercando ogni volta di costituire delle regole e di capire di più rispetto al linguaggio, all’atto della ricezione e alla declinazione del tema. Quindi un’arte in cui metti alla prova te stesso per comprendere meglio cos’è l’essere umano. Ho ricevuto anche dissensi, com’è ovvio. Non piacere a tutti è doloroso, ma anche buon segno.

“Sono la tettonica a zolle della ricostruzione identitaria”, dici in “Un eschimese in Amazzonia”. Sarebbe sbagliato considerarla a priori come un’esternazione autobiografica di Liv Ferracchiati. Quindi te lo chiedo: lo è? E qual è il legame tra questo modo di vivere la transizione identitaria e il tuo linguaggio teatrale?

Non è autobiografica, è rappresentativa. L’autobiografismo è affascinante quando ti pone in una posizione privilegiata di accesso rispetto alla comunicazione. Da lì in poi finisce il suo fascino e l’interesse per l’autobiografico diventa voyeurismo. In un atto creativo ci si appella alle proprie percezioni, al proprio sguardo, al proprio immaginario, poi avviene una trasfigurazione. Credo un autore lavori più o meno così. Nel caso della “Trilogia dell’identità” c’è stato anche un lavoro di gruppo. La ricerca sull’argomento con la mia compagnia, The Baby Walk, è iniziata nel 2013. I linguaggi che ne sono nati, perché ogni capitolo ne ha uno diverso, derivano dalla veicolazione del materiale prodotto. Abbiamo lasciato che le tre tappe, a seconda del tema secondario, ci suggerissero la loro lingua. Credo, per rispondere, che ci sia un legame tra il mio modo di raccontare e la vita, in senso più ampio del tema identitario di per sé.

Credi che il teatro debba assumere un ruolo poetico e politico particolare rispetto al tema del transgenderismo?

Credo che il teatro debba assumere un ruolo poetico e politico in generale. Il transgenderismo, o meglio, la costruzione dell’identità di genere, è un tema come un altro. Per politico intendo che dovrebbe essere specchio di una società e aprire un confronto. Il significato di poetico è ineffabile e, per me, non è solo quello più consueto. In un “Un eschimese in Amazzonia” il coro iniziale trasfigura il machismo tragicomico che tutti conosciamo, accanto al surreale viaggia quindi la volgarità. Si può ridere o inorridire per questa riproposizione, ma dietro c’è lo sforzo di liberarsi da una prigionia mentale, e questo per me è un atto poetico.

Hai avvertito resistenze da parte del pubblico, posto di fronte alla anticonvenzionale e profonda ricerca sulla sessualità di Liv Ferracchiati?

Devo precisare: non è una ricerca sulla sessualità, ma sulla costruzione identitaria. Una ricerca che mette in primo piano il tema del transgenderismo, ma interroga anche la creazione dell’identità di genere nei cisgender, coloro che sentono allineate anatomia e identità di genere assegnata. Fino ad arrivare alla conclusione, nel terzo capitolo, che questa “identità di genere” può persino annoiare, perché è un’altra classificazione. Si fa morire simbolicamente l’Eschimese in scena, quindi la tassonomia, per occuparsi dell’esistenza e dei suoi limiti superiori, ad esempio la morte. Il pubblico ha accolto bene il lavoro, parlo ovviamente della maggioranza e della percezione in sala.

E qual è stato generalmente, invece, l’atteggiamento della critica?

Per quanto riguarda la critica, in parte, credo ci sia stata una lettura viziata dal tema: più che occuparsi del dato teatrale, a volte, si è posto l’accento sull’argomento. Faccio un esempio. “Stabat Mater” è l’esito di alcune chiacchierate che facevano saltare all’occhio come la costruzione spontanea dell’identità di uomo, a volte, portasse all’adesione di un modello maschile standardizzato, anche in persone molto intelligenti e piuttosto consapevoli di sé. Questo mi ha colpito molto, ma non mi importava, che so, sostenere le tesi del Queer. Mi interessava, piuttosto, il contrasto tra un corpo femminile e la spontanea adesione ad un modello maschile, per certi versi, stereotipato. Sospendendo il giudizio, ma approfondendo l’apparente contraddizione.

Senza pensarci troppo su: qual è il tuo primo ricordo legato al teatro?

Il primo ricordo è negativo. Credo fosse un adattamento teatrale di Dostoevkij. Ero in un palchetto di terzo ordine, avevo 8 anni e girandomi verso i miei ho detto: “Se non finisce mi butto giù”. Diverso è stato quando ho visto per la prima volta Ascanio Celestini a teatro, avevo 18 anni circa. Mi colpiva del suo lavoro la capacità di parlare a tutti, il rapporto diretto con il pubblico e l’attenzione che era in grado di mantenere. Mi aveva anche sorpreso vederlo tra il pubblico ad inizio spettacolo, salire sul palco ed iniziare. Ho pensato: “Quindi il teatro può essere anche così?”.

 

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