Emma Stone e Jonah Hill in “Maniac”.
Emma Stone e Jonah Hill in “Maniac”.

MANIAC: La nuova serie Netflix è un’occasione sprecata

Pillola azzurra o pillola rossa?”. Chi non ricorda il quesito esistenziale che poneva Morpheus al giovane Neo nel cult di fantascienza del 1999 delle sorelle Wachowski, “Matrix”? Vivere nell’illusione di un universo da sempre conosciuto e vissuto, o aprire gli occhi verso una nuova e cruda realtà? Alla soglia del nuovo millennio, le due registe trasposero sul grande schermo uno dei grandi dibattiti sui media e le nuove tecnologie nel corso del secolo, e del loro effetto sulla mente e sulla volontà umane. Dopo quasi vent’anni di distanza e con vari scombussolamenti storici, politici e sociali, la questione si pone diversamente. In un mondo le cui colonne portanti sono in crisi e senza nessun spiraglio di risanamento, quanto ci rifugiamo dentro i nostri apparati mediali pur di non affrontare in prima persona i problemi quotidiani?

In “Maniac”, la nuova miniserie Netflix online dal 21 settembre, il regista e sceneggiatore Cary Fukunaga, parte proprio da queste premesse. I due protagonisti, Annie Landsberg (Emma Stone) e Owen Milgrim (Jonah Hill), decidono di prendere parte a una sperimentazione farmaceutica, che vede l’utilizzo di un percorso basato su tre pillole. Queste sono in grado di guarire completamente e definitivamente la malattia mentale. A differenza della pillola di Morpheus, le tre pasticche di “Maniac” catapultano i protagonisti nei mondi fittizi più disparati. Dalle terre lontane di un regno fantasy, ad una serata paranormale in una villa anni ’30, fino ai cari, e oramai oggetto di culto, anni ’80. Non c’è nessuna grande verità tenuta nascosta all’umanità come in “Matrix”. È nell’illusione, nella fantasia, nel sogno, che i due pazienti devono fare i conti con le loro problematiche passate. E affrontarle.

Nell’arco delle sue 10 puntate “Maniac” sembra perdere forza, per reggersi su un grande impatto visivo senza eccedere in ulteriori cospicue complessità narrative.

Tralasciando il grandissimo cast coinvolto, il grande punto di forza della miniserie Netflix consiste nell’usare la tematica fantascientifica per raccontare i nostri tempi. È il modus operandi tipico del cinema di genere di fantascienza, che negli ultimi anni si è fatto carico delle denuncia sociale. Peccato che nell’arco delle sue 10 puntate “Maniac” sembri perdere forza, per reggersi su un grande impatto visivo senza eccedere in ulteriori cospicue complessità narrative. Cary Fukanaga crea una contemporaneità alternativa. I continenti sono sette, c’è una statua dell’Extra-Libertà e dei mini-robot mantengono le strade pulite. Ovviamente il tutto è farcito della retronostalgia che oramai accomuna tutta la produzione seriale americana. Nonostante l’ambientazione a metà tra “Her” di Spike Jonze e “Blade Runner 2046” di Denis Villenueve, il regista prendendo spunto dalla cultura nipponica di anime e manga cyberpunk, dona una nuova verve. Non si tratta certo di una novità, ma il risultato è piacevole e di impatto.

“Maniac” potrebbe rientrare tra quei casi di miniserie limitate apprezzabili sotto ogni punto di vista critico. Purtroppo si mantiene su deboli svolte narrative, o che risultano perlomeno prevedibili. Cary Fukunaga rivolgendosi ad un pubblico ampio come quello di Netflix, parte da buoni propositi registici e di storytelling. Ma dà, forse troppe, riposte affrettate ai quesiti rimasti in sospeso nel corso degli episodi. La questione iniziale sulla capacità di leggere la realtà in un’epoca ipermediata, l’eliminare la fase di dialogo di un’analisi psicologica e le sue possibili ritorsioni sui protagonisti, tendono quasi a dissolversi in favore della questione privata e sentimentale dei due personaggi principali e le vicende del dottor Mantleray (Justin Theroux) e sua madre, la psicologa/guru Greta Mantleray (interpretata da una sempre piacevolissima Sally Field).

Cary Fukunaga rivolgendosi ad un pubblico ampio come quello di Netflix, parte da buoni propositi registici e di storytelling.

La volontà di Cary Fukunaga di complicare e ampliare un soggetto di partenza abbastanza semplice (la serie si ispira ad un’omonima norvegese) con nuovi spunti visivi sensazionalistici, si scontra con soluzioni narrativamente deboli. “Maniac” date le grandi aspettative, in confronto alla media della produzione Netflix può essere considerato un buon prodotto, ma tende a lasciare allo spettatore la sensazione di un suo potenziale audace maggiore non mostrato. La serialità dei dieci episodi non è stata sfruttata abbastanza, vista una narrazione che forse avrebbe trovato più funzionalità in un lungometraggio di tre ore. Giocare con il genere fantascientifico significa addentrarsi in un campo minato, e Cary Fukunaga, dopo il lavoro magistrale svolto con la prima stagione di “True Detective”, è riuscito in parte nell’impresa. Insomma: una grande occasione mancata.

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