“Mowgli – Il figlio della giungla” doveva avere toni più cupi del precedente di casa Disney del 1967.
Andry Serkis, attore britannico conosciuto ai più per le sue incredibili performance in motion capture, da Gollum a Lord Snoke, nel 2015 decise di imbarcarsi in un progetto ampiamente rischioso. Insieme alla The Immaginarium e alla Warner Bros. iniziò la produzione dell’adattamento di “Il libro della giungla” di Rudyard Kipling. “Mowgli – Il figlio della giungla” doveva avere toni più cupi del precedente di casa Disney del 1967. Di cui contemporaneamente, stava lavorando alla sua versione live-action, con la regia di Jon Favreau e un cast composto dai ricchi nomi dello star-system. Il film di Andry Serkis, così, vide lo slittamento continuo della sua data di uscita, fino all’acquisizione finale da parte di Netflix, con relativo rilascio direttamente nella piattaforma digitale.
Con due film rilasciati in un lasso di tempo molto breve, così simili e provenienti dalla stessa matrice letteraria, è difficile non fare un confronto. Soprattutto se ambedue ambiscono a una elevata spettacolarità delle ambientazioni e dei protagonisti animali, data da maestosi budget e un uso minuzioso dei programmi di rendering più innovativi. La volontà di Andry Serkis di far emergere il lato meno favolistico del racconto di Rudyard Kipling appare fiocamente nell’ultima parte del film. Nella prima ora, invece, seguiamo le note vicende di Mowgli alle prese con l’inserimento nelle regole della giungla. Il cucciolo di uomo, allevato da una branco di lupi, con l’aiuto di Bagheera e di Baloo, fa i conti con la sua condizione originaria, dettata dalla necessità di differenziarsi dagli altri abitanti del paradiso tropicale. Mowgli non è abbastanza lupo né abbastanza uomo, scintilla che scatena l’odio della tigre Shere Khan nei suoi riguardi.
“Mowgli – Il figlio della giungla” si inserisce di diritto in una schiera di film ispirati alla letteratura per ragazzi, simil-Disney.
Per quanto si intraveda il lavoro svolto sia dal regista, che dagli attori coinvolti, di rendere lo scenario più ferino, questo lato non emerge abbastanza. “Mowgli – Il figlio della giungla”, rispetto al live-action Disney di Favreau del 2016, si differenzia principalmente per la mancanza del classico assetto da musical. Gli animali protagonisti rimangono, se non troppo, legati a una caratterizzazione cartoonesca: occhi grandi, dolci e gioviali sorrisi. La giungla, così rigogliosa e colma di colori, dona un tocco al film più paradisiaco, che di pericolo perenne. Anche la fotografia, giocata continuamente su una colorazione dei toni del tramonto, fa eco alla canonica verve magica dell’universo Disney. L’unica vera maturità del progetto si evince dal maggior spessore della crisi identitaria di Mowgli, e dalla sua scoperta della violenza nel mondo umano e animale.
La sua classificazione in PG-13 appare un’ulteriore trovata per dare al film di Andry Serkis un’immagine non propriamente veritiera. L’attore e regista britannico, legato al mondo dei franchise hollywoodiani, non ha dimostrato sufficiente audacia. “Mowgli – Il figlio della giungla” si inserisce di diritto in quella schiera di film ispirati alla letteratura per ragazzi, simil-Disney. Come “Peter Pan” di Paul John Hogan del 2003, o “Biancaneve e il cacciatore” della Universal Pictures. La speranza è di vedere trasposizioni meno favolistiche, più dirette alla loro matrice letteraria che alla versione ben edulcorata della Disney. Questo proponendo una tipologia di regia meno spettacolare, o desacralizzando l’aura fantastica che circonda i Classici. Andy Serkis con il suo “Mowgli – Il figlio della giungla” propone una versione dimenticabile del romanzo di Rudyard Kipling. Con una storia già ampiamente raccontata, ha comunque perso l’occasione di donare una visione intima, e dunque nuova.