Paulina (Dolores Fonzi) abbandona un promettente futuro da avvocato a Buenos Aires per avviare progetti di inclusione e di istruzione in una scuola per adolescenti svantaggiati. Suo padre Fernando (Oscar Martinez), un giudice liberale, si oppone fermamente alla decisione di sua figlia, pur nella consapevolezza che niente potrà fermarla. L’arrivo di Paulina nella piccola cittadina rurale dove dovrà insegnare, una regione al confine con il Paraguay, brutalizzata dalla deforestazione, si rivela subito ostico. Gli studenti sono poco collaborativi, preferiscono uscire dalla classe piuttosto che impegnarsi in una discussione filosofica sulla libertà di scelta, prediligono l’azione immediata all’offerta retorica. Tra lezioni cancellate e studenti riluttanti, la donna si concede conforto nell’amicizia con la collega Laura (Laura Lopez Moyano). Una sera, di ritorno da una serata insieme all’amica e qualche bottiglia di vino, Paulina è aggredita e violentata da alcuni ragazzi del posto. Ma ciò che è realmente successo appare poco chiaro.
“Paulina” nega al suo pubblico il facile coinvolgimento emotivo per spingersi verso una comprensione più complessa del comportamento della sua protagonista.
Il film si apre con un’intensa sequenza di otto minuti, la cui forza individua non solo il tono di tutto il film ma soprattutto il suo solido impianto ideologico. La sequenza vede Paulina scontrarsi apertamente con un padre che rappresenta il tradimento degli ideali di sinistra. La figlia lo accusa di essersi trasformato in un conservatore, in un uomo che vuole per lei solo un titolo più prestigioso e che per questo è disposto a sacrificare pure gli obblighi morali insiti negli ideali che va professando. Ma quando i suoi doveri morali le si rivoltano contro, contro il suo corpo, contro la sua intimità, cosa è giusto fare? Come dovrebbe reagire una donna alla violenza nel mondo che la circonda? Qual è il modo più adeguato di reagire a una violenza, a uno stupro? E chi lo stabilisce?
Queste sono alcune delle domande sollevate dal film di Santiago Mitre per esplorare il potere acquisito da chi sopravvive a una violenza. Chi guarda è costantemente investito da interrogativi penetranti, ma tutti senza una risposta risolutiva. L’opposizione tra il convinto idealismo della protagonista e il conservatore pragmatismo del padre appare alquanto dura. Ma è proprio questa stessa intransigenza che, decontestualizzata, ci aiuta a comprendere le strane reazioni della donna allo stupro. Per Paulina la risposta naturale all’aggressione sarebbe quella di denunciare i suoi aggressori e di affidarne le sorti alle istituzioni legali o affettive (suo padre, il suo fidanzato, i medici, la polizia) preposte alla sua protezione. Ma la donna non vuole farlo e così il suo rifiuto diventa un atto radicale e anarchico. Se vuole avere quella libertà di scelta che lei sostiene ardentemente e che tenta di insegnare, allora questa deve essere assoluta, pratica e non retorica.
“Paulina” non è costruito come un dramma in cui la violenza verso la protagonista è il centro della narrazione.
“Paulina” non è costruito come un dramma in cui la violenza verso la protagonista è il centro della narrazione. Infatti, è nelle decisioni offuscate ma lucidissime prese da Paulina che il regista affina l’obiettivo. Lo spettatore è messo costantemente in guardia, preoccupato da questioni morali complicate dal comportamento della protagonista. Paulina vorrebbe capire piuttosto che giudicare. Per chi guarda è più logico condividere la rabbia del padre e del fidanzato Alberto (Esteban Lamoth), infuriati nell’apprendere che la donna non solo non vuole muovere accuse, ma soprattutto non vuole interrompere la gravidanza risultante dallo stupro. Decisioni che per gli uomini della sua vita costituisce un affronto ma che per Paulina rappresentano un potente atto di grazia. Nonostante comprenda pienamente la malvagità di ciò che le è stato fatto, il suo desiderio di proteggere la comunità locale è ulteriormente rafforzato quando suo padre intercede per una condanna veloce.
Nella sua ricerca di giustizia sociale su larga scala, Paulina rifiuta le forme di giustizia reattiva, punitiva e maschile. Preferisce usare il proprio corpo come atto rivoluzionario di ribellione contro l’ingiustizia sistematica che ha creato quel tipo di comunità impoverite. È da lì che provengono i suoi stupratori. Lei non li ha visti ma inizia lentamente a riconoscerne i volti tra i suoi stessi studenti. Ma Paulina non è la donna inerme che i ragazzi si aspettavano o che questi volevano rendere tale. La violenza che le hanno mosso non ha prodotto una donna violentata. L’orgoglio virile è stato offeso dalla sopravvivenza del corpo femminile. È questa l’idea radicale che conferisce spessore al film: quando una vittima non si comporta come tale, chi è il vero perdente? La vittima o il carnefice? Con ciò il film non assolve i veri responsabili, ma restituisce la giusta complessità alla questione della colpa.
Nella sua ricerca di giustizia sociale su larga scala, Paulina rifiuta le forme di giustizia reattiva, punitiva e maschile.
Il punto focale del film non è sullo stesso stupro né sulla sofferenza di Paulina. Tant’è che il regista sceglie di mostrare il crimine da lontano, lasciandolo intuire attraverso le grida della donna. Da qui, parte il primo di una serie di flashback attraverso i quali vengono mostrati i fatti che hanno portato all’aggressione, nonché le azioni e le motivazioni di molti dei suoi personaggi. Alle scene in cui vengono seguite le indagini della polizia, le visite mediche, il supporto psicologico, il film affianca il ritratto psicologico del più grande degli aggressori, l’unico a non essere tra gli studenti. È Ciro, un operaio della segheria locale umiliato dall’ex-fidanzata e frustrato dal dumping sociale. Assistiamo anche all’incapacità di Fernando di comprendere l’anomala impassibilità della figlia all’accaduto e ai suoi tentativi di prendere il controllo tramite il suo fidanzato e il sistema legale.
“Paulina” inquieta e sconcerta col suo esame della zona grigia che sta tra i valori che professiamo concettualmente e le azioni che siamo disposti a compiere per affermarli nel mondo. La reazione della donna che in un primo momento può apparire come il tentativo di dimenticare lo stupro si rivela essere un estremo atto di rafforzamento del potere femminile. Le decisioni di Paulina potrebbero non allinearsi alle norme della logica o del comportamento di qualcun’altro nella sua situazione, ma sono indubbiamente le sue decisioni. Come lo studente che l’aveva sfidata, rifiutando il modello democratico che lei voleva insegnare, Paulina si rifiuta di accettare le regole stabilite da altri, da uomini che vogliono imporle azioni ed emozioni. Contro il patriarcato, lei resiste. Lo stesso concetto cattolico di perdono è sostituito dall’impegno politico per la giustizia sociale e, attraverso questa sostituzione, il film propone un lucido intreccio di ambiguità e incertezze.
“Paulina” inquieta e sconcerta col suo esame della zona grigia che sta tra i valori che professiamo e le azioni che siamo disposti a compiere.
Sebbene la protagonista sia quasi costantemente sullo schermo, rimane imperscrutabile e lontana dall’empatia immediata. Il merito va all’interpretazione di Dolores Fonzi ben consapevole di quando trattenersi o di quando sia il momento giusto per esplodere. Un voluto risparmio emotivo che riesce a convincersi della sanità mentale del personaggio, ad assecondarne la forza, ad attirarci magneticamente malgrado i dubbi sul suo comportamento. La successione degli eventi assorbe il dramma, evitando accuratamente l’indignazione facile e la risoluzione consolatoria. In questo modo, la formidabile scena conclusiva, che rinnova ciclicamente il confronto padre figlia dell’inizio, arriva come un’esplosione necessaria. Santiago Mitre ci lascia un film duro la cui serietà di intenti e il rifiuto degli schemi melodrammatici è tanto ammirevole quanto emotivamente raggelante. Probabilmente, è proprio questa ambivalenza la sua cifra più nobile: Paulina, il personaggio e il film, rivendicano una libertà cinematografica e personale.