In “Se la strada potesse parlare” ritroviamo una storia di vita quotidiana, dove le piccole cose prendono il valore di un sentimento eterno.
Questa opera terza di Jenkins vede protagonista una giovane coppia di Harlem degli anni ’70, Tish e Fonny. I due sono legati dall’infanzia, ma durante l’adolescenza il loro rapporto è destinato a diventare amore. Il contesto, familiare e politico, non è dei migliori. Harlem è un quartiere abitato principalmente dalla popolazione nera dove, come precisa la giovane protagonista, i giovani non hanno futuro. Perché viene tolta loro ogni prospettiva per un futuro migliore. Sia dalla società bianca che, soprattutto, dalla polizia locale, che spesso incastra i ragazzi afroamericani per reati inesistenti. Fonny verrà messo in carcere con l’accusa di stupro ai danni di una donna portoricana, nel mentre Tish scoprirà di essere incinta del ragazzo. La giovane cercherà in tutti i modi di far scarcerare il fidanzato, dovendosi scontrare con una burocrazia avversa, e con la madre di lui, che non vede di buon occhio questa gravidanza inattesa.
Jenkins, rispetto ad altri, ha in mente un modo personale di fare cinema. In “Se la strada potesse parlare” ritroviamo una storia di vita quotidiana, dove le piccole cose prendono il valore di un sentimento eterno. Per tutta la sua durata, la candida voce in voice-over di Tish, commenta quei dettagli sfuggenti che, però, sanciscono l’amore corrisposto verso Fonny. Il regista cerca di creare attorno alla coppia una sorta di atmosfera passionale, portando lo spettatore in completa intimità con le le loro dinamiche. Come in “Moonlight”, l’uso di una fotografia estetizzante e di una luce materialmente intensa, rendono i corpi, i gesti e le movenze dei protagonisti statuari. L’occhio minuziosamente attento di Jenkins sugli attori e sull’immagine, non ha rivali tra gli autori della sua generazione.
Se in “Moonlight” si trovava a tratti un vittimismo di fondo, forse troppo esibito, con “Se la strada potesse parlare” Jenkins riesce a dosare la denuncia sociale con il racconto in maniera equa.
Il formalismo eccelso è stemperato da un racconto dove vigono la disperazione e l’affanno. Jenkins si dirama su un territorio abbastanza controverso: dove usa un impatto visivo sensuale, accompagnato da una musica blues rasserenante, ci narra avvenimenti duri da digerire. Il rapporto tra Tish e Fonny, a discapito di un forte amore provato, sembra proprio non essere destinato ad essere felice. Anche la città, con le sue condizioni socialmente avverse, si ritorce sui due giovani, tanto da renderli incapaci di reagire. Eppure la sinergia che si crea nel loro rapporto funge da luce in fondo al tunnel che è Harlem. Jenkins ripropone visivamente proprio questo. Non è principalmente un film di denuncia, ma un racconto di quanto l’amore possa essere un’ancora di salvezza in mezzo a un mare di ostilità.
Tuttavia, il regista riesce a non cadere nel melenso. Non focalizzandosi nei soliti stilemi romantici reiterati nel cinema, dà letteralmente vita e luce alle pagine di Baldwin, e alla sua poetica schietta e umana. “If Beale Street Could Talk” riconferma l’operato di Jenkins e la sua vitalità. Insieme a Chazelle, rappresentano il nuovo scenario nordamericano autoriale dei prossimi anni. Se in “Moonlight” si trovava a tratti un vittimismo di fondo, forse troppo esibito, con “Se la strada potesse parlare” Jenkins riesce a dosare la denuncia sociale con il racconto in maniera equa. Non ancora troppo edulcorato come solo il maestro Spike Lee sa fare, ma almeno meno ridondante del precedente. Un vero gioiellino di questa, per ora, piacevole Festa del Cinema di Roma.