“Sulla mia pelle” trova la sua cifra nell’infondere nel suo ritmo cadenzato e stanco il fastidio per l’assurdo a cui si assiste di giorno in giorno.
Quella di Stefano Cucchi è una storia tutta italiana che ha ormai passato il decennio e che, solo nel 2017, ha raggiunto la chiosa giudiziaria più indegna. Arrestato nel 2009 in possesso di cocaina ed hashish da tre agenti dei Carabinieri. Poi rimbalzato da un carcere all’altro, da un pronto soccorso pubblico fino all’Ospedale Cautelare Sandro Pertini. Il trentunenne romano muore nella notte del 22 ottobre, a meno di una settimana dall’arresto. Sulle cause del decesso, come ci informano le immancabili didascalie prima dei titoli di coda, ancora oggi non si è data una spiegazione clinica.
Nonostante il racconto cronachistico che segue tutte le tappe del caso, segnalate puntualmente da luoghi e tempi, “Sulla mia pelle” trova la sua cifra proprio nell’infondere nel suo ritmo cadenzato e stanco il fastidio per l’assurdo a cui si assiste di giorno in giorno. Ci si indigna non poco dinanzi alla spirale ingiusta in cui cade Stefano Cucchi. Troppo inequivocabili le tumefazioni vistose che ricoprono il volto del giovane, talmente tanto che verrebbe da reagire empaticamente dinanzi all’incapacità (o alla non volontà) di vedere di chiunque abbia sott’occhi i lividi del pestaggio avvenuto. Connivenze ridicole di agenti e secondini, finanche di sanitari approssimativi, si susseguono da un interrogatorio a una radiografia, fino al massimo degrado della Legge, ipoteticamente uguale per tutti: un giudice che firma l’arresto senza mai alzare gli occhi dalle scartoffie anagrafiche.
“Sulla mia pelle” deve molto – quasi troppo – al corpo di Alessandro Borghi, emaciato e rasato, piegato dal ruolo e dalla storia di Stefano Cucchi.
Cinema corporeo questo di Cremonini, mosso dalla volontà di estrapolare quella di Stefano Cucchi dalle centinai di morti avvenute nelle carceri italiane ogni anno. Asciutto e ficcante, dritto alla tesi che il regista sostiene con coraggio. Il film si limita – e fa bene a farlo – a lasciare che i fatti avvenuti parlino e, anzi, urlino la verità. Infatti, dura soltanto un attimo il chiedersi se piuttosto non sarebbe stato meglio dare spazio anche alle indagini seguenti. Ma il film si apre e si chiude sulla morte di Stefano Cucchi, sull’accaduto marchiato in viso, poi ribadito da quella foto rimasta indelebile nelle nostre menti, in cui le ecchimosi ripugnanti sono state ingigantite agli occhi e alle coscienze dalla sorella Ilaria Cucchi (interpretateta da Jasmine Trinca) che ha trascorso gli ultimi anni a esigere la verità.
“Sulla mia pelle” deve però molto – quasi troppo – al corpo di Alessandro Borghi, emaciato e rasato, piegato dal ruolo e dalla storia. Grazie a ciò confeziona con sacrifico la sua interpretazione migliore, racchiudendola in una mimesi fisica e soprattutto vocale degna di nota, circondato da un coro di capaci attori nostrani. Traspare nella recitazione di sfondo il trasporto e il rispetto per una vicenda a cui forse questo film restituirà nuovi riflettori. Sarebbe auspicabile. Sarebbe doveroso. La verità è una parola che si nasconde spesso tra le pieghe della vergogna. Se questa viene imprigionata nel silenzio e nell’omertà, che molta opinione pubblica tutt’oggi pratica, fa soccombere la verità. Se ne allontana, con la stessa potenza di un travelling all’indietro.