Il cantautore The Niro durante un concerto live a Villa Ada – Roma, 21 luglio 2019. PH: Paolo Soriani.

THE NIRO: “In tempi così bui io dico basta: sono sereno!”

The Niro, benvenuto su Music.it! Siamo rimasti molto sorpresi dal tuo nuovo album e siamo anche molto curiosi di conoscerti. Partiamo subito da un aneddoto personale: hai condiviso il palco con dei grandissimi artisti e gruppi – come i Deep Purple e Amy Winehouse – c’è stato un episodio particolarmente stravagante accaduto durante uno di questi momenti?

In realtà sono accadute tantissime cose, forse potrei scriverci un libriccino, un piccolo bignami. Ricordo molto bene l’apertura del concerto dei Deep Purple. Fu un episodio molto particolare perché solo due ore prima mi chiamò Raniero Pizza – risposi al telefono con gli occhi chiusi perché stavo dormendo davanti ad un film – per dirmi se me la sentivo di aprire il loro concerto. Ovviamente ho accettato e, una volta salito sul palco, c’era molta gente che mi fischiava e io non avevo neanche iniziato. Era il 2006 e non avevo album alle spalle quindi nessuno sapeva chi fossi; mi avvicino al microfono e senza neanche pensarci dissi: «Non mi avete riconosciuto?» e comincio a suonare.

E quale fu la reazione del pubblico?

A metà brano ci fu un silenzio tombale e a fine canzone tutti applaudirono: fu il ribaltone più bella della mia vita. La cosa più bella è che alla fine concerto scendo dal palco, il pubblico dei Deep Purple è più severo di quello di Vasco Rossi, e mi sentii miracolato: i Deep Purple mi dissero «Sei un eroe!» ed io risposi «Grazie, anche voi non siete male!». Il pubblico di Amy Winehouse, invece, fu fantastico fin dall’inizio: ho concluso con un applauso di cinque minuti. Uscirono articoli pazzeschi che dicevano: «È nata una stella!» e, dopo quel concerto, sembrava che parlassero più di me che di Amy Winehouse. Ma lei è il mito, io sono semplicemente contento del mio percorso.

Ti sei dimostrato molto coraggioso, nulla sembra spaventarti e soprattutto nulla può fermarti!

È solo l’incoscienza, poi credo che se scegli di intraprendere un percorso e poi manchi nei momenti cruciali, allora non è vero che vuoi veramente intraprendere quella strada. Sul palco dei Deep Purple mi è tornata in mente la classica frase: “Hai voluto la bicicletta e adesso pedala”; così come: “Hai voluto fare il cantautore e adesso vai lì a costo di prendere le bottigliate in faccia”. Questo è stato lo spirito con cui ho affrontato quel concerto e poi, successivamente, ogni live: “Tiratemi qualunque cosa ma io non scenderò da questo palco, mi dovrete uccidere e morirò comunque sul palco dei Deep Purple“. Tra l’altro quando dissi a mio padre che stavo per andare ad aprire il loro concerto lui mi rispose: «Cosa sarà mai, io ho suonato con Orietta Berti!».

A proposito, tu sei figlio d’arte: quanto ha influito questo nella tua crescita musicale?

Mio padre era batterista e lasciò lo strumento nel 1973 dopo un tour in Francia che lo aveva deluso molto. Successivamente si ricomprò la batteria, evidentemente aveva voglia di ricominciare, riprese a suonare ma in modo meno ambizioso, e me la lasciò montata. Dunque, io fin dalla nascita sono cresciuto nella cameretta con la batteria montata e questo è stato il motivo per cui iniziai a suonarla già all’età di quattro anni. Mio padre non mi ha mai spiegato niente, ma ogni tanto si metteva alla batteria e suonava e io rubavo con gli occhi: è stato questo a farmi innamorare della musica.

Come si è comportato tuo padre quando ha capito che anche tu volevi fare il musicista?

Lui all’inizio mi voleva scoraggiare, perché per lui la musica è stata una delusione; al contrario mia madre, che aveva vissuto la storia di mio padre in modo forse più malinconico, quando ha visto che avevo un approccio alla vita molto musicale, mi ha molto incoraggio. Mi preme dire che io non sono mai andato a lezione di niente, neanche di canto. Sono stato esclusivamente batterista fino a 23 anni, e fino ad allora non avevo mai pensato di cantare. Non mi è mai piaciuto il canto, preferivo suonare.

È quasi difficile crederlo!

Poi ero molto timido, infatti fare il frontman all’inizio mi è costato tanto. Mi ricordo che all’inizio mi ritenevo stonatissimo perché non avevo neanche l’accordatore della chitarra; lo comprai solo prima di fare il mio primo concerto e, con la chitarra intonata, finalmente riuscivo a cantare bene. Dopo questo mio primo concerto vidi, attraverso i gli occhi della mia ex, qualcosa di stupefacente, perché lei era sbalordita. Dopo quel concerto, cominciai a farmi notare e dal 2005 partì tutto.

Come nasce il nome The Niro?

The Niro nasce dal fatto che io un giorno, parlando con un mio amico, di cui io ero batterista della sua band, mi dice: «Ma tu sei felice di fare il batterista?», ed effettivamente io in quel momento non lo ero perché iniziavo a scrivere musica mia e stavo già maturando il desiderio di portare sui palchi quello che avevo dentro; quindi gli risposi: «Non sarei felice neanche se mi chiamasse Michael Jackson!». Successivamente feci ascoltare questi brani alla mia ex, che mi guardò e mi disse: «Ma cosa stai aspettando?». Evidentemente stavo aspettando proprio questa frase perché il giorno dopo lasciai tutte le band, chiamai due miei amici, e da lì nacque la The Niro band. Dopo un paio di anni la band si sciolse, ma decisi di tenere il nome come progetto cantautoriale, perché tutti mi chiamano The Niro ed è anche un nome che mi sta simpatico.

Tra l’altro “The Niro” è anche il nome di un tuo album.

Esatto, c’è anche l’album uscito nel 2008, che poi è quello che dà il via a tutto. “The Niro” nasce da lontano perché parte da un concerto che aprii di Carmen Consoli a Londra. Durante quel concerto mi notò un membro dell’Universal Music Group e di lì a poco i miei produttori ricevettero diverse telefonate a settimana da parte di tutte le etichette, ovviamente ci affidammo ai primi che si erano palesati e appunto alla Universal Music Group International.

Com’è avvenuto l’incontro con Gary Lucas?

L’incontro con Gary Lucas nasce come un fulmine a ciel sereno. Nel 2018 Gary Lucas si trovò a parlare con Gigi Pastore, un italiano che aveva conosciuto a Bologna, i due rimasero in contatto e cominciarono a scriversi. Gary Lucas voleva tornare in Italia a suonare però aveva bisogno di qualcuno che cantasse dei suoi brani. Gigi Pastore, allora, gli fece il mio nome e Gary Lucas, felice, disse di conoscermi e che gli sarebbe piaciuto andare in tour con me. Quindi disse a Gigi Pastore che aveva alcuni brani inediti scritti con Jeff Buckley che voleva farmi cantare. La cosa mi interessò sin dal primo momento; quindi mi metto in contatto con Gary Lucas che però non mi parlò di andare in tour bensì mi propose di realizzare un album in cui racchiudere i 12 brani scritti con Jeff Buckley nel periodo ’91-’92.

Come ha preso forma l’album “The Complete Jeff Buckley and Gary Lucas Songbook”?

Gary Lucas mi mandò i brani, aprii il primo, misi le cuffie, chiusi gli occhi: brano di 12 minuti, mi feci un viaggio pazzesco, non ascoltai neanche gli altri e gli scrissi immediatamente: «Come vogliamo procedere?». Successivamente chiamai il mio amico Francesco Arpino e lo coinvolsi alla coproduzione artistica; poi trovammo un’etichetta discografica che finanziò l’operazione, l’etichetta di Pierre Ruiz dal nome Esordisco.

Cosa accadde successivamente?

Salto temporale: a dicembre Gary Lucas sbarca a Roma pronto per registrare di “The Complete Jeff Buckley and Gary Lucas Songbook”. In dieci giorni abbiamo registrato questo album. Quindi chiamai i musicisti con cui ho sempre condiviso il palco Maurizio Mariani al basso, Puccio Panettieri alla batteria, Mattia Boschi al violoncello, Francesco Arpino al pianoforte, io che canto e suono altri strumenti e percussioni varie, Gary Lucas ovviamente alla chitarra e poi abbiamo chiamato anche Phil Spalding bassista di Elton John che alla fine ha suonato sette brani su dodici. In dieci giorni abbiamo realizzato questo album e il 4 ottobre scorso, quindi un anno dopo praticamente, è uscito e adesso sto parlando con te perché mi stai intervistando proprio per questo album.

Molto bene, sei stato chiarissimo!

Piaciuta? Te l’ho detto che mi chiamano l’uomo bignami!

Quale è stata la tua prima reazione dove aver scoperto che avresti fatto un album con Gary Lucas?

Sempre l’incoscienza. All’inizio mi sembrava uno scherzo, poi una vota accertatomi che lo scherzo non era tale ho cominciato a pensare “Ok, è tutta la vita che mi accorpano a Jeff Buckley e non mi è mai piaciuta questa cosa. Me la sento di farla? Riuscirò a sostenere le eventuali critiche che mi verranno fatte? Anche solo le critiche di pregiudizio? perché comunque si tratta di un mito…”. Ora, invece, credo che proprio attraverso questo album può emergere maggiormente il fatto che io non canto come Jeff Buckley e questo è stato miracoloso.

Il progetto di Gary è stato piuttosto ambizioso: ha voluto dare una nuova forma, una nuova vita alle canzoni di Jeff Buckley e tu sei stato bravissimo nel dargli una tua unica ed esclusiva interpretazione.

È bellissimo come esce prepotente il talento di Gary Lucas nel suonare: sembra che lui abbia dato sfogo a tutta la sua libertà artistica. Allo stesso tempo, si è dimostrato molto aperto e ha lasciato la libertà a me e a Francesco Arpino di stravolgere alcuni brani come ad esempio “Bluebird blues” che comunque ha una scrittura un po’ diversa. Oppure “In the Cantina” che con l’organo che è diventata una sorta di nuova “Hallelujah”. Gary Lucas, quando ha sentito queste versioni, si è innamorato follemente e lo diceva anche durante le registrazioni che era entusiasta. Speriamo che questo progetto ci porti tantissimo in giro. Adesso abbiamo nove date in Italia a dicembre.

Tra tutte le canzoni di “The Complete Jeff Buckley and Gary Lucas Songbook”, qual è quella che più tocca e rappresenta The Niro?

Come scrittura “Story Without Words”. Da cantare in realtà ne ho due “In the Cantina” – con la quale apro i concerti pure in versione chitarra e voce – e “Mojo Pin”, che di solito faccio chitarra e voce, però mi è capitato anche di farla con il pianoforte e voce. Questi due brani sono proprio miei, sono diversi. Certo nel disco c’è la chitarra di Gary Lucas che rimanda alla prima versione più o meno, però adesso anche senza chitarra viene un’altra cosa e ha una botta emozionale veramente forte.

The Niro, potremmo continuare a parlare per ore, ma siamo giunti al momento dei saluti. Ti ringraziamo per tutto il tempo che ci hai concesso. In attesa di venirti a sentire live e prima di concludere, vuoi dire qualcosa ai lettori?

Sì, mi piacerebbe emergesse una cosa e cioè che sono sereno, non so se è una cosa che si può scrivere, ma io sto bene. E non è sempre stato così, anzi proprio per questo che mi piace rimarcare questa cosa. In tempi così bui io dico basta: sono sereno!

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