Un frame del film Napszállta (Tramonto) di László Nemes a Venezia, con Juli Jakab.
Un frame del film Napszállta (Tramonto) di László Nemes a Venezia, con Juli Jakab.

NAPSZÁLLTA (TRAMONTO) – La deludente evoluzione di László Nemes a Venezia

Solitamente quando un regista ha alle spalle un’opera meravigliosa che ha fatto man bassa di premi e incensi lo si aspetta al varco, dividendosi tra sperate riconferme e timorosi passi falsi. È proprio ciò che è capitato con il nuovo film di László Nemes, acclamato autore di quello straordinario precedente che è stato e rimane “Il figlio di Saul” (Gran Prix a Cannes 2016 e Miglior Film Straniero agli Oscar). E la palpitazione dell’attesa per capire se il giovane regista ungherese avesse ribadito il proprio talento è emersa dagli applausi all’apparire del suo nome in cima a “Napszállta – Tramonto”. Purtroppo penso da sempre – e a credo non a torto – che caricare di aspettative un film basandosi sulla filmografia sia sbagliato, che lo si faccia con sincera devozione o che si battano i palmi caricati di fiducia.

Ambientato nel 1913 a Budapest, “Napszállta – Tramonto” narra di Irisz Leiter, una giovane giunta nella capitale ungherese con la speranza di lavorare come modista di cappelli nel leggendario negozio un tempo di proprietà dei genitori defunti. Quasi subito viene cacciata dal nuovo proprietario, Oszkár Brill. Mentre nella cappelleria Leiter sono in corso i preparativi per accogliere ospiti della massima importanza, un uomo si reca inaspettatamente da Irisz in cerca di un certo Kálmán Leiter. Nonostante gli venga quasi intimato di lasciare la città, la giovane rimane, intestardendosi sulla ricerca di Kálmán, fratello che tutti le dicono essere un assassino, aggrappata all’ultimo brandello di un passato e di una famiglia quasi del tutto dimenticati. Proseguirà una ricerca per le strade buie di una città già ostile alle soglie della Grande Guerra e del tracollo della civiltà europea.

Il risultato è un’opera ossessiva, fastidiosa anziché ansiogena, carica di pretese senza mai dire qualcosa che avremmo voluto sapere.

È questo il canovaccio intrigante, che si smarrisce ben presto, rimandando troppo le intenzioni sovrafilmiche del regista. Non si può negare che “Napszállta – Tramonto” manchi di un discorso nobilissimo. Però soffre di una vaghezza narrativa che interessa solo fino a un certo punto. Ovvero fino al momento in cui capisci che non ci saranno colpi di scena o svolte inaspettate – e forse anche meritate – per il povero spettatore costretto a seguire la giovane ungherese per due ore (Juli Jacab, esempio di protagonista assoluta e ipotetica Coppa Volpi, non fosse altro che per la presenza costante sulla scena).

László Nemes infatti replica non i fasti del suo succitato film precedente ma ne ripropone l’unica soluzione registica. La macchina da presa resta incollata alle spalle e alla nuca di Irisz nel suo peregrinare spasmodico nel groviglio cittadino. In un crescendo di angoli bui e di pericoli costanti che incombono dalle atmosfere e dalla nebbiosa comprensione del tutto, la regia sembra proteggerla dalla fine nascosta apparentemente dietro ogni angolo. Addirittura, la cinepresa si abbassa con lei quando viene scaraventata in terra da un branco di uomini che vuole stuprarla. Rincorsa e attorniata nel suo girovagare indefesso, la protagonista si muove dappertutto, aprendo porte, negozi, presentandosi inverosimilmente in palazzi di contesse a lutto, costantemente rabbuiata nel volto. Quasi ci fanno male le gambe e imploriamo pietà, tanto da sperare si che qualcuno la rapisca, la leghi su una sedia, la tenga buona per cinque minuti. Capo basso e occhi di sfida, Irisz sembra disposta a tutto pur di riavere ciò che le è stato tolto. Forse anche a farci perdere la pazienza.

Non si può negare che “Napszállta – Tramonto” manchi di un discorso nobilissimo. Però soffre di una vaghezza narrativa che interessa solo fino a un certo punto.

La giovane è pedinata da una macchina a mano che presto si fa estenuante, pericolosamente monocorde, che ha l’unica spiegazione assolutoria di mettersi dalla parte del personaggio e dal suo vagare verso l’ignoto. Lo spettatore sa quanto Irisz, ma purtroppo il dubbio è che anche il regista non sapesse dove andare come il suo personaggio. Il risultato è un’opera ossessiva, fastidiosa anziché ansiogena, carica di pretese senza mai dire qualcosa che avremmo voluto sapere. E pretenziosamente sbilanciata verso una caratura estetica innegabile (un abbagliante 35mm) e un significato umano e sociale sospeso e annacquato. Bastavano dieci minuti per dirci tutto. Irisz alla fine si è fermata. La lasciamo nel solco di una trincea, camuffata e sporca, androgina e alienata in un mondo sparito. Noi continuiamo a camminare alla ricerca di un’occasione mancata. In sottofondo, forzati applausi e un assordante silenzio.

https://www.youtube.com/watch?v=IRicMrXyW7M

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