I Tre Allegri Ragazzi Morti ritratti da Ilaria Magliocchetti Lombi.
I Tre Allegri Ragazzi Morti ritratti da Ilaria Magliocchetti Lombi.

TRE ALLEGRI RAGAZZI MORTI: “BOB DYLAN mascherato non avrebbe problemi”

Diamo il benvenuto a Enrico Molteni dei Tre Allegri Ragazzi Morti! Music.it è lieta di ospitarti sulle sue pagine! In tanti anni di carriera immagino avrai aneddoti a bizzeffe da raccontare. Quello che vorrei sapere riguarda la storia di questa “Ceramica persa in California” che figura nell’artwork di copertina di “Sindacato dei Sogni”, il vostro ultimo lavoro. Ci racconti come l’avete scovata?

Da dove potrei partire? Intanto l’idea di lavorazione di copertina è nata quando Davide ha trovato questa fotografia su un sito internet, una sorta di Ebay. Ci ha disegnato sopra questi tre gattini e l’abbiamo tenuta come possibilità di copertina. Non avevamo ancora deciso che potesse diventarlo, però tra le possibilità c’era anche questa.
Quando poi ci siamo ritrovati a dover scegliere, abbiamo optato per questa. Il punto è che non potevamo utilizzarla perché la foto non era nostra, la ceramica nemmeno e la qualità era bassa. Quindi ci siamo messi a cercarla in rete fino a che ne abbiamo trovata una. Solo che l’abbiamo trovata nel posto più lontano del mondo, ovvero la California. Abbiamo dovuto aspettare che arrivasse qui in Italia e ci ha messo tanto. Siamo stati sulle spine perché avevamo paura che arrivasse rotta o nascessero problemi alla dogana. Ma alla fine siamo riusciti ad averla.

Peraltro, è una novità il fatto che la copertina non sia un disegno di Davide, sbaglio?

No infatti. Non era mai successo precedentemente. Essendo le copertine dei disegni di Davide e basta, tutti questi giri non li avevamo mai fatti.

Io avevo immaginato che foste andati in California e che aveste scoperto questa ceramica in chissà che posto strano.

La storia un po’ più lunga. E il motivo per cui ci sono dei gattini è perché Davide stava facendo un giro al Castello Sforzesco di Milano e aveva trovato un gatto nero con dei segni bianchi sul muso che sembravano la maschera nostra. E da lì è partita l’idea di avere questi gatti. Però no, in California non ci siamo mai stati.

Facciamo un passo indietro: raccontami il tuo percorso di musicista prima di diventare uno dei Tre Allegri Ragazzi Morti.

Non mi ricordo di preciso quando ho iniziato a suonare. Credo avessi 12 o 13 anni. Mia mamma aveva una chitarra classica in casa e ascoltavo artisti che tutt’ora mi piacciono, come Neil Young, Bob Dylan, The Cure, The Smiths. Ho semplicemente iniziato a suonare senza smettere più.

Hai quindi iniziato con la chitarra.

Sì. Tutt’ora credo di essere più bravo a suonare la chitarra che il basso (ride). Come molti altri del resto. Sono molti i bassisti che sono chitarristi mancati. Io mi considero uno di quella categoria.

E quand’è che hai incontrato i Tre Allegri Ragazzi Morti?

Li ho incontrati quando hanno iniziato a suonare, nel ’94. Loro suonavano principalmente nella provincia di Pordenone, in realtà piccole. Io ero appassionato di musica e ho cominciato ad andare a vederli ogni volta che suonavano. A un certo punto mi hanno chiesto se volevo suonare con loro. Lì ho realizzato il mio sogno. Mi sembrava una cosa impossibile. Dopo tanti anni, sono ancora uno dei Tre Allegri Ragazzi Morti.

Sei salito e non sei più sceso. Mi viene in mente Sid Vicious, ma lui…

Lui è sceso e pure male!

Infatti. Però immagino quanto possa essere bello riconoscersi. È questo che è accaduto?

Loro sapevano che suonavo perché avevo un gruppo di cover. Davide dice che assomigliavo parecchio al bassista ritratto nel primo disegno dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Non sono io quel bassista lì, però io ero quello che gli assomigliava di più.

Un match perfetto, insomma. Come Davide Toffolo e Luca Masseroni, anche tu vieni dalla provincia. Quanto conta, per te, l’ambiente in cui si muovono i primi passi ?

La provincia è importante per tanti motivi. Io credo sia un mix di densità e anche di clima. Pordenone, per esempio, è una città piovosa e di circa 50.000 abitanti. La situazione giusta per stare chiusi in una stanza a sognare e immaginarsi qualcosa di diverso quando ti annoi di stare al bar. Credo sia effettivamente un posto che, per assurdo, è stimolante per la creatività. Proprio perché c’è poco.

Vivi ancora in provincia?

No, adesso vivo a Milano. Davide a Roma e Luca è rimasto Pordenone. Siamo sparsi.

Dove vi incontrate per la lavorazione di un disco?

Adesso per esempio, sto per partire per andare a fare una settimane di prove per il concerto nuovo. Ci incontriamo in un posto in Carnia, al confine con l’Austria. Immagino ci sia la neve. Questo per le prove di adesso, ma in generale ci mettiamo d’accordo su dove trovarci e ci incontriamo con degli obiettivi. “Sindacato dei Sogni” (qui la recensione) l’abbiamo fatto a Volpago del Montello, in provincia di Treviso. Si decide una settimana e ci si trova. Chi è vicino è vicino e chi è lontano si fa il viaggio. Questo è diventato il nostro modo di lavorare.

Rispetto alla creazione de “Sindacato dei Sogni” avevate già un’idea a monte?

Quattro delle dieci canzoni sono nate e registrate in studio. Le altre erano già più o meno registrate. Avevamo fatto dei provini in sessioni precedenti e sempre in studi di registrazione diversi. Una volta in uno studio sul Lago di Como del nostro chitarrista, un’altra vicino a Pordenone, nello studio di Enrico Berto, un nostro amico. Avevamo sei provini. Poi quattro sono nate appunto mentre registravamo.

Rispetto ai precedenti album, invece, cosa c’è di diverso in “Sindacato dei Sogni”? Ti parlo anche rispetto alla lavorazione stessa del disco, considerando appunto che quattro dei brani sono sorti diversamente.

Sicuramente la differenza tra gli altri dischi è l’anno 2018/2019. Nel senso che a essere diverso non è solo l’anno, ma anche l’età e l’esperienza nostra. Di certo il contesto in cui è stato fatto è completamente nuovo. Il modo in cui è stato realizzato, invece, è un modo di registrazione abbastanza vecchio. Abbiamo cercato di appoggiarci il meno possibile alle comodità del computer. Questa è una cosa che negli ultimi anni tende a supportare un po’ tutti i gruppi. Anche noi ce ne siamo avvalsi. È lecito, però: avevamo voglia di fare un disco più suonato e quindi siamo tornati all’origine. Siamo talmente vecchi che possiamo coincidere con la storia delle registrazioni.

Intendi prima dei supporti digitali?

Beh sì. Quando abbiamo iniziato era ancora difficile avere delle facilitazioni vere e proprie. Comunque, è un disco molto suonato e molto rock. Abbiamo fatto sessioni molto lunghe, suonando insieme e cercando di costruire le canzoni in un modo che avevamo un po’ perso negli ultimi dischi, dove il pattern era più programmato, più studiato a tavolino. Questa volta invece è stato tutto più da vecchi pirla (ride). Nel senso che effettivamente abbiamo fatto sessioni lunghe, in questo caso nel bosco, e questo è il risultato. Il metodo è vecchio, però è sicuramente nuovo come testa, idee e contenuto. Non siamo un gruppo di revival. Facciamo musica nel tempo che c’è.

Volendo approfondire questo aspetto: qual è la ragione specifica per cui avete dato vita a questo album e con queste modalità che mi hai descritto?

Se ho capito la domanda, ti dico che intanto volevamo discostarci da tutto ciò che sta andando di moda adesso. Volevamo riportare la chitarra al centro anche perché si dice che sia destinata a scomparire. Cosa possibile, tra l’altro. Sembra abbia chiuso anche la Gibson che le produce. Siamo sempre stati un gruppo molto legato a quell’attitudine, siamo sempre stati chitarrosi, se così si può dire. Volevamo questa cosa per andare contro il suono che c’è nelle canzoni di questo periodo. Un suono molto semplice e pulito. Volevamo riportare casino. Quindi abbiamo deciso di registrarlo dal vivo, farlo praticamente in diretta. Più o meno questo è stato il motivo.

Parliamo de La Tempesta, adesso. Ti va di raccontarmi come vi è venuto in mente di creare questa etichetta, questo collettivo?

La Tempesta è nata proprio perché volevamo fare le cose nostre per i fatti nostri. Abbiamo fatto questa società nel 2000 lavorando prima sui dischi dei Tre Allegri Ragazzi Morti. Quando poi abbiamo raccolto abbastanza contatti e abbiamo capito come muoverci, abbiamo aperto anche ad altri artisti che per vari motivi erano vicini a noi. Da lì, è nato il collettivo.

Dal 2000 a oggi le cose sono molto cambiate.

Indubbiamente sì, era molto diverso. Non c’era l’uso di internet come se ne fa oggi. Però diciamo che è stato importante il fatto di avere una struttura molto leggera, di non esserci gonfiati come fanno le case discografiche a un certo punto, sai i grattacieli, i dipendenti. Noi siamo sempre rimasti molto semplici, legati anche a un’idea di produzione piccola, con poche risorse. Sempre al meglio possibile, ma cercando sempre di mettere davanti le idee. Quindi, questo tsunami non ci ha preso del tutto e siamo rimasti abbastanza simili a come eravamo.

C’è da dire che col vostro gruppo e La Tempesta avete aperto una sorta di strada a tutta una realtà (proprio) indipendente musicale in un periodo piuttosto infausto per la musica in Italia. Qual è il cambiamento effettivo che avete riscontrato ne La Tempesta?

Sicuramente la cosa più importante che è cambiata è l’oggetto di vendita. Tutto ciò attorno al quale ruotava la produzione reale discografica era il disco. Il disco era il luogo in cui era contenuta l’arte, ma anche il motivo per cui l’arte poteva continuare ad esistere. Quella è stata sicuramente la rivoluzione più grossa. Però il mondo si è adattato abbastanza velocemente. Si è capito che l’arte poteva essere anche liquida. Si è dovuto riorganizzare il sistema produttivo. Ti parlo in generale, ma è così anche per noi.

Voi che mosse avete fatto per adeguarvi?

Sono cambiati gli investimenti. Si lavora più sulle edizioni, sui diritti d’autore. Comunque, è stata una cosa che passo per passo è venuta abbastanza naturale. C’è anche un circuito live più vivo rispetto a come lo ricordiamo negli anni ’00, e quindi più possibilità di suonare. Un po’ di qua, un po’ di là, si è cercato di stabilire un equilibrio tale da poter andare avanti. Riusciamo a fare le cose che vogliamo fare al meglio. Poi, è chiaro che se per un video invece di 1000 euro ne avessimo 10.000, uscirebbero dei capolavori da Oscar! Per dire che ce la caviamo, ma bisogna anche stare attenti. Soprattutto sui progetti nuovi. Per chi ha già una storia, puoi immaginare che le cose siano più semplici.

Come funziona il laboratorio de La Tempesta?

Per molto tempo il modo per entrare ne La Tempesta era legato a contatti personali. Capitava sempre che qualche persona a noi vicina o che incontravamo andando a suonare in giro per l’Italia, o per passaparola, ci facesse giungere la voce rispetto a qualche artista. Per cui, una sorta di vicinanza già c’era. Oggi è più o meno uguale. Ci arrivano tanti demo, ma è veramente difficile decidere di intraprendere una collaborazione con un artista che ti scrive via mail. Quello può essere un primo passaggio, ma bisogna conoscersi, capire che intenzioni si hanno, se si va d’accordo, se si ha la stessa visione. Tutte le cose fondamentali per lavorare bene assieme vengono rese molto più veloci dal contatto diretto. Se Giorgio Canali mi dice «c’è un ragazzo che si chiama Vasco Brondi ed è bravo», è molto più facile rispetto a Vasco Brondi mi scrive una mail.

Allora puoi dirmi una parola con cui esprimere ciò che muove la tua curiosità, sia a impatto diretto che fortunato caso di ascolto di un demo arrivato ne La Tempesta?

Sì. Diversità. Sono affascinato dalle cose che non suonano come tutte le altre. Da un lato è un meccanismo sbagliato, credo. Anche dal punto di vista dei risultati. Però sono sempre stato un appassionato di cose strane. Sai come quelle cose che trovi nei negozietti delle grandi città dove entri e trovi cose strane. Mi piacciono. Per esempio, adesso arrivano molti demo che suonano come Calcutta. È l’ultima cosa che mi sognerei quella di fare uscire un artista che suoni come Calcutta, perché Calcutta c’è già. Preferirei qualcuno che suoni come qualcosa che non c’è.

Mi sto domandando adesso se lavorare a 360 gradi con la musica, come produttori e talent scout come fate voi, possa in un qualche modo influenzare la scrittura.

Da un lato sì, però non saprei. Per dire, le nostre canzoni le scrive Davide. E per quanto sia aperto ai cambiamenti, soprattutto etnici – ultimamente è rimasto affascinato dalla cumbia, dal reggae – rimane fedele al nostro stile. In verità tutti abbiamo capito che esisteva un’altra musica possibile da ascoltare e anche da suonare. Comunque, dicevo che l’immaginario di base delle canzoni rimane legato spesso ai ricordi dell’adolescenza. Fondamentalmente, alcune influenze ci possono essere, però secondo me non sono così tante. La scrittura rimane radicata dentro la persona che la fa. Poi, suonando da tanto tempo, hai un tuo stile. È più facile decidere di affrontare un altro genere che di cambiare modalità di scrittura e farla assomigliare a quella di Calcutta.

Mi domando come si possa rimanere freschi, pur collezionando strati, intesi come esperienze e influenze. In “Sindacato dei Sogni” si ascoltano molti strati, ma siete voi e sempre freschi.

Dipende molto dalle persone, sai. Ci sono quelli che leggono tra i libri quattro frasi e trovano uno spunto. E quelle sono forse le intuizioni migliori. Ci sono poi quelli che lavorano su un altro sistema più personale. Esistono diverse possibilità di scrittura. Nel nostro caso, diciamo che Davide qualcosa ce l’ha, no? È da tanti anni che scrive canzoni e libri. È sempre alla ricerca di nuovi spunti. E fondamentalmente perché la vita normale lo annoia. L’idea di poter fantasticare sempre lo rende carico.

Come nasce un brano dei Tre Allegri Ragazzi Morti?

Di solito, le canzoni dei Tre Allegri Ragazzi Morti sono sempre nate con Davide che arriva con un testo pronto al 60% e un giro di accordi indicativo. Questa volta è andata al contrario. Nel senso che siamo partiti da giri di accordi e poi sono arrivate le parole e le linee vocali. Credo che un motivo per cui fondamentalmente molti pezzi dei primissimi Tre Allegri Ragazzi Morti sono molto punk era che c’era questa esigenza di dire qualcosa e di dirla velocemente, e quindi gli strumenti andavano dietro a questa cosa. Mentre questo album qui è più dilatato. Proprio perché prima c’è la musica e poi le parole.

Questa cosa ti fa sentire diverso? Il fatto stesso di cambiare processo creativo. Poi, questo è il vostro ottavo disco, giusto?

Secondo i nostri calcoli è il nono. Però, magari mi sbaglio io (ride). Effettivamente, il fatto di aver realizzato molti dischi ammorbidisce le cose. Le prime volte, ricordo che eravamo sempre in attesa di avere feedback. Ora invece no. Ma anche perché siamo più grandi, abbiamo più sicurezza di quello che facciamo. Però comunque fare un disco non è facile. Ci vuole molto coinvolgimento, molto tempo. Poi, è una cosa anche tecnica, non solo creativa. Io stesso me ne dimentico. Ogni volta dico «Ma sì, andiamo, lo facciamo e fine», come se fosse un attimo. Invece no. Il tempo, le energie e tutto quanto ci si mette dentro per realizzare un disco, sì, ti cambia. Non è possibile che uno faccia un disco e ne esca immutato. Forse è ancora presto per capire cos’è cambiato. È uscito da troppo poco tempo!

Certo. Immagino poi che il riscontro live sia un grosso metro di giudizio in tal senso.

Certamente. È importantissimo. Poi, comunque, c’è sempre una cosa da capire. Anche se noi siamo convinti delle nostre cose, la gente alla fine ha sempre le sue idee. Per esempio, su “Caramelle” c’è qualcuno che ha commentato dicendo che il pezzo gli ricorda Raf. E Raf non è proprio il nostro primo riferimento musicale. È bello anche sapere che più andremo avanti e più ci sarà gente che penserà cose diverse. E quindi noi stessi, vedendo da lontano queste cose, avremo delle percezioni diverse. Comunque, fare i dischi rimane una cosa magica anche perché si chiude: ci metti sopra l’anno d’uscita e quello è.

Eh sì. È un archivio. Entriamo adesso nella sezione maschere. Da chi e da dove è nata quest’idea di indossarle?

Provo a farla breve. La maschera è nata perché  volevamo che il gruppo fosse composto da esseri disegnati, personaggi dei fumetti. Motivo per cui ci chiamiamo anche così, perché siamo personaggi dei fumetti. Essendo anche in carne ed ossa, all’inizio non è stato facilissimo andare in giro a dire che eravamo dei fumetti e poi eravamo tre tizi normali. Dunque, la maschera è stata un’idea per far capire che c’è un immaginario diverso rispetto alla nostra fisicità. Non siamo noi con le nostre facce. Siamo tre personaggi di un mondo che non è reale. Questa, la ragione vera.

Indossate questa maschera da molto tempo, ormai. Cos’è cambiato della maschera, cambiando e crescendo voi stessi dietro questa maschera?

Negli anni è diventata più grande di noi. Nel senso che veniamo identificati con la maschera ed è proprio la maschera a farci entrare completamente nel gruppo. Non è che siamo un gruppo mascherato di cui non si conoscono le facce. Si sa chi siamo. Volendo, le nostre foto si trovano. Però, quando indossiamo la maschera diventiamo dei supereroi. È un gioco, una cosa un po’ fantastica. È sempre stato così ed è una cosa di cui siamo ancora contenti.

Beh, sì. Se continuate ad indossarla.

Sì, perché comunque è un’idea. Ci sono altri gruppi mascherati. E questa cosa comunque mette in gioco una discussione sull’immagine che è sempre una discussione interessante.

Riuscite ancora a sentire l’autenticità della prima intuizione che vi ha portato alla maschera, oppure c’è qualcosa che, col tempo, pesa di più?

Stiamo sfiorando la psicoanalisi qui, eh! Sicuramente, ci sono dei paralleli. Mi spiego: se io penso a un lottatore di wrestling, quello deve avere quella maschera lì per entrare nel personaggio. Poi, che ci sia un uomo dietro che lo interpreta, è un’altra cosa. Noi siamo quella cosa lì. È un gioco. Esistono, sì, mille possibilità di approfondimento. Però per noi è quella cosa lì. Siamo in camerino, prima di salire sul palco ci diciamo «siamo pronti?», indossiamo la maschera e diventiamo il gruppo che siamo. Tecnicamente, è un costume. Anche un modo per entrare veramente nel personaggio.

Allora ti chiedo: nella vita quotidiana, questa maschera, che fine fa?

La abbandono. Me la porto dietro, ma non la indosso. Hai presente Superman? Lui è sempre la stessa persona. Ci sono dei momenti in cui ha dei poteri speciali e dei momenti in cui non ce li ha. Cerco di non approfittarne. Diciamo che non vado a fare la spesa con la maschera. Non l’ho mai fatto. Chissà, magari ci devo provare!

A questo punto mi sorge spontaneo domandarti quanto comoda sia questa maschera!

È molto, molto comoda. Non dà nessun fastidio, sì. Puoi fare quello che vuoi!

Chiudiamo la sezione maschere. Ti faccio la mia domanda di rito: qual è il concerto che Enrico Molteni non può perdersi nella vita?

Domanda molto interessante! Direi che il concerto della vita è un concerto che credo non mi sarà possibile vedere ed è quello dei The Smiths. Tecnicamente, è possibile. Sono tutti vivi. Ma in pratica è impossibile. Hanno già provato a fare delle reunion, ma niente, credo non succederà mai.

Invece di qualcosa che sai sia possibile?

Vediamo… Stando a Milano, la figata è che si vedono tanti concerti. Questa settimana ci sono i Massive Attack. Poi, c’è questo gruppo che si chiama Khruangbin ed è molto figo. Ho visto Cosmo da poco e anche Auroro Borealo. Una cosa che proprio vorrei vedere tantissimo… Non mi viene. Sto pensando ai The Sisters of Mercy, ma so che non sono più quel gruppo che era. Vedrei loro, ma so che il concerto sarebbe una roba improbabile. Devo pensarci meglio, accidenti!

Un’altra curiosità: hai mai scritto dei pezzi tuoi?

Sì. Ho scritto delle canzoni in inglese principalmente. In italiano non ci sono mai riuscito. Le ho scritte per un gruppo che si chiamava Fargo. Erano amici di Pordenone e facevamo musica di derivazione emo-core americana. Abbiamo suonato per un po’ insieme. Ti parlo del ’99/’00. Ero già uno dei Tre Allegri Ragazzi Morti.

Tra le tue ispirazioni c’è qualcosa che sia al di fuori della musica?

Considerato che ho fatto quelle canzoni là oramai 20 anni fa e poi non ne ho più fatte, se ci ripenso, direi che mi ispiravo ad altre canzoni. Mi piacevano tantissimo i My Bloody Valentine e ricordo che c’era una canzone che voleva essere un po’ come una loro. Facendola, ricordo che uscì abbastanza diversamente. Tanto comunque da non essere un plagio. Fondamentalmente, ogni volta che facevo qualcosa di musicale, cercavo di riprodurre qualcosa di musicale. The Jesus and Mary Chain pure mi piacevano tanto.

I tuoi gusti musicali sono cambiati nel corso degli anni?

Hanno fatto un giro enorme, ma sono tornati al punto di partenza. Quindi, fondamentalmente mi piacciono le stesse cose che mi piacevano quand’ero ragazzino.
Penso che sia interessante. Nel senso che l’innamoramento per la musica è stato così forte, tanto che per tanti anni ho cercato altre cose che mi dessero le stesse emozioni. Non sempre le ho trovate. Resta il fatto che ad oggi, il primo innamoramento, è rimasto quello più forte. Non si finirà mai di ascoltare, ma oramai ascoltare robe che non mi interessano mi sembra tempo sprecato. Però ho fatto tanti anni di ricerca, anche estrema. Alla fine, sono tornato a Bob Dylan.

Lui lo hai visto dal vivo?

Sì, nel ’92 mi pare. Lui che è il mio artista preferito, ad esempio, credo che non tornerò più a vederlo. Anche se mi piacerebbe in realtà, ma i suoi concerti non sono certo noti per essere indimenticabili. È come se stesse cercando di distruggere il proprio mito, non so. Io ho una teoria tutta mia a riguardo.

Illuminaci.

La storia di Bob Dylan è complessa. È stato tra i maggiori rappresentanti della cultura pop, assieme ad Elvis Presley e pochi altri. Anni fa ha dichiarato di voler suonare e ha iniziato questo “Neverending tour”. Però, come ti dicevo, secondo me vuole normalizzare la sua posizione che era simile a quella di Gesù, per dire. La gente andava a casa sua a domandargli cosa ne sarebbe stato del futuro. A lui dava fastidio. Si fosse messo una maschera, magari, non avrebbe avuto tutti questi problemi.

E su questa pertinente osservazione ti saluto e ti ringrazio tanto per questa chiacchierata.

Ciao! Ci si vede in tour!

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