Il regista cinese Wang Quan’an si appoggia con un atto di fede assoluta alle capacità del dispositivo cinematografico.
Ancora mi stupisco di quanto un film possa esaltare ogni piccola cosa per potenziarla nell’efficacia poetica di un’immagine. “Öndög” del regista cinese Wang Quan’an (Orso d’oro a Berlino nel 2007) si appoggia con un atto di fede assoluta alle capacità del dispositivo cinematografico e sin dalle prime immagini dichiara la sua cifra orgogliosamente. I quindici minuti iniziali sono affidati a due sole inquadrature. La prima è un piano-sequenza in soggettiva a bordo di una jeep, che si fermerà davanti al cadavere che emerge improvvisamente nella steppa notturna. La seconda è un altro travelling a camera fissa che esplora tutto lo schermo panoramico da sinistra a destra in campo lungo, per riprendere le inutili formalità della polizia intorno al cadavere. Impossibile non lasciarsi colpire almeno un po’ da tanta esibizione estetica che, come un quadro impressionista, riempie lo schermo e lo separa tra terra e cielo.
Al centro di questo paesaggio brullo e gelido rimane un corpo nudo rannicchiato,. Morto ma bellissimo, esposto nella sua portata simbolica anche quando coperto pudicamente da un lenzuolo bianco. Pochi dettagli e limitati movimenti di macchina bastano al regista per fornirci gli ingredienti del suo cinema e per inverare l’incontro casuale tra i due personaggi principali. Da questo momento in poi, la narrazione prosegue parallela. Il poliziotto, messo a sorvegliare il corpo mentre cala la notte, per ammazzare il tempo e la paura si mette a cantare “Love me tender”. Laddove la mandriana torna a casa per indossare un abbigliamento più adeguato e per prendere tutto l’occorrente per la guardia. Dopodiché, come imposto dalle autorità, a bordo di un cammello la donna raggiunge il poliziotto. Il freddo notturno è riscaldato dal fumo, dall’alcol e dai racconti di vita, fino a quando la donna non offre al giovane anche altro.
“Öndög” vive di contrasti culturali e visivi praticati per offrirci una metafora sulla sopravvivenza attraverso la carne e lo spirito.
La cinepresa si sposta al di qua del cammello come a concedere privacy mentre il tempo del racconto si attenua visivamente in uno slow sfocato dalle fiamme del falò. Durante l’amplesso inscenato tra il fuoco e il fianco dell’animale, con i corpi stipati in abbondanti pellicce, la donna prende il fucile e spara a un lupo. Il giorno seguente, il cadavere, il poliziotto, il lupo e un uomo accusato dell’omicidio vengono caricati tutti sulla stessa camionetta e portati all’obitorio. La donna torna alla sua capanna, ma qualcosa è cambiato. Volutamente? Visto l’impianto metaforico del film e il suo titolo si direbbe di sì. La parola mongola öndög significa uovo, simbolo di fertilità e di rinascita della terra e della Mongolia dove è stato ritrovato il primo fossile di dinosauro. Pertanto, i mongoli sarebbero i diretti discendenti degli animali preistorici che, attraverso il ventre fecondo delle donne mongole, sopravvivono all’estinzione.
“Öndög” stupisce come una rivelazione, spingendoci a cercare nelle inquadrature dilatate una ragione al perché continuiamo a guardare rapiti. Evidentemente, vive nello sguardo occidentale un certo fascino per culture lontane. E ci sentiamo anche stupidi quando alla fine sorridiamo nel leggere «Tratto da una storia vera». Wang Quan’an velocizza il ritmo autoriale inserendo aperture di assurdo grottesco. Dal primo piano del cammello (uno dei pochi in un film completamente giocato su distanze scalate tra campi medi e lunghi), allo squarcio nella poesia paesaggistica praticato da un test di gravidanza fatto nel bel mezzo della steppa. “Öndög” vive di contrasti culturali e visivi praticati per offrirci una metafora sulla sopravvivenza attraverso la carne e lo spirito. Possiamo anche rimandare indietro certe simbologie, ma questo film da festival lo conserviamo. Speriamo che non muoia qui, ma che si reincarni non in un uovo di dinosauro, ma in qualche distribuzione.