Una foto di scena di “Barry Lyndon - Il creatore di sogni” di Giancarlo Sepe.
Una foto di scena di “Barry Lyndon - Il creatore di sogni” di Giancarlo Sepe.

BARRY LYNDON: GIANCARLO SEPE fa rivivere l’opera di STANLEY KUBRICK

Con Redmond Barry è impossibile entrare in empatia. È strano ascoltare una storia e non poter solidarizzare con le disgrazie del protagonista, oltre che con quelle degli altri personaggi. Non ho letto il romanzo di Makepeace Thackeray, ma l’omonimo capolavoro di Stanley Kubrick ha questa caratteristica. L’avvincente rielaborazione di Giancarlo Sepe, “Barry Lyndon – Il creatore di sogni”, stimola oltremodo a interrogarsi sulle ragioni del distacco emotivo. È nell’assenza totale della circostanza, del caso, il motivo per cui Redmond Barry non merita compassione. Allora non esiste sottotitolo più azzeccato de “Il creatore di sogni”. Al di là di ogni fortuna, fondamentale persino per il principe machiavelliano, Barry Lyndon si fa e si disfa in autonomia. La narrazione in scena al Teatro Argentina è un’analisi retrospettiva del protagonista, in cui biografia individuale e Grande Storia coincidono. Libertà personale e determinismo sociale si intrecciano per non dividersi fino allo scioglimento della storia.

Giancarlo Sepe raggiunge i risultati di Stanley Kubrick attraverso mezzi puramente teatrali. Riesce a farlo grazie a una simbologia che si chiarisce in corso d’opera. Bisogna solo superare il momento di stupore nel trovare tutti i personaggi sul palco, come le statue di cera del Madame Tussaud. E lasciarsi guidare dall’esperienza del regista. Le statue si animano e diventano figure mosse dalle parole di Barry Lyndon, deus ex machina di se stesso. Come nella ‘“Educazione sentimentale” di Flaubert i personaggi sono tipi sociali che si esplicano in compulsioni caratterizzanti un’identità ben definita. Recitano in modo sguaiato e volgare quando non c’è sangue blu. L’italiano è la lingua che simboleggia trasparente autocoscienza nelle intenzioni. Più è sporcato con altre lingue d’Europa più il personaggio in questione è pronto a essere vittima delle macchinazioni di Barry Lyndon. E se l’italiano sparisce del tutto, lasciando posto all’inglese, il personaggio è un antagonista puro.

Il gesto di ogni personaggio incontrato da Barry Lyndon sprigiona un simbolismo disumanizzato.

Mauro Brentel Bernardi fornisce di prima mano le ragioni di Barry Lyndon. L’ottimizzazione dei lunghi tempi di Kubrick è ottenuta tramite le efficaci confessioni del protagonista. L’amore per Nora lo svuota completamente di ogni afflato umano. Può solo pensare a recuperare il rispetto che gli sarebbe dovuto solo per il fatto di discendere dai re d’Irlanda. Reagisce alla bastonata sociale con un’intraprendenza che gli garantisce il successo. Dietro alla sagoma di un cinico calcolatore c’è sempre il cadavere di un idealista sognatore. La razionalità con cui attua la sua rivalsa ha la forma dell’ossessione. Agisce fino alla fine come perfetto conoscitore della spietata necessità del nesso causa-effetto che determina le dinamiche sociali e relazionali, oltre che le leggi di natura. La razionalità ha la forma della cieca passione dal punto di vista della performance attoriale. Una passione che avvolge moralisticamente il pubblico in modo efficace, e che non coinvolge affatto.

Il gesto di ogni personaggio incontrato da Barry Lyndon sprigiona un simbolismo disumanizzato. Il fidanzamento tra Nora e il capitano Quin è stilizzato e grottesco, perché opportunistiche sono le ragioni della loro unione. I corpi degli attori sotto i costumi d’epoca si muovono come elementi di una giostra. Così agghindati, la loro traiettoria risulta lucidamente orchestrata da un determinismo che assimila i personaggi a vuote figurine. Alle laconiche e declamate confessioni di Barry Lyndon fanno da controcanto le narrazioni corali. Un contrappunto in cui la diafonia è emessa con competenza da un cast che rivela anche ottime doti canore, oltre che attoriali. Anche in questa rivisitazione i contraddittori sfondi emotivi sono sostenuti da una colonna sonora sublime. È un’opera perfetta. Il distacco dello spettatore provocato dall’exemplum negativo non è limite, ma valore aggiunto. Facendosi nero il messaggio moraleggiante, “Barry Lyndon” di Giancarlo Sepe brilla di rara potenza evocativa e comunicativa.

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