“Donne al parlamento” non è neanche lontanamente un’occasione mancata. Non è l’utopia che si fa distopia ad essere raccapricciante dal punto di vista dei contenuti. Perché la Compagnia Di Necessità Virtù dimostra nell’arco della performance di svolgere un lavoro davvero notevole sulla voce, sul corpo e sull’espressività. Quello che scandalizza è vedere sul palco di Teatro Trastevere la superficialità più totale nella delineazione grottesca della figura femminile. Ogni riferimento all’estetica e alla cura del corpo è ancora un cliché neutro capace di strappare qualche risata. Se vogliamo vedere cose che non esistono, è un banale tentativo di dare carne all’idealismo sempre troppo disumanizzante. Anche perché il ciarlare pennellato di rosa di quattro donne che devono orchestrare la propria azione suscita simpatia solo i primi due minuti. Mentre cercano di conquistare la maggioranza in assemblea, Prassagora e le sue amiche si inerpicano in un climax costellato di sessismi gratuiti e offensivi.
La rivisitazione di Lorenzo De Liberato di “Donne al parlamento” è uno scempio di cui inorridirebbe anche Aristofane.
Spesso la tv propina programmi di intrattenimento di basso profilo culturale. E troppo spesso sono proprio i corpi femminili, i corpi di donne, a essere merce venduta in cambio di risate. Non troverete alcun significato politico alla chiusura di “Donne in parlamento”. È inaccettabile, per una messinscena che attraverso le parole di Prassagora si propone incessantemente come utopia, l’utilizzo d’un linguaggio verbale e corporeo degradante. Sia per le donne che per gli uomini. L’originale commedia aristofanea ironizzava sì sui limiti di un pensiero forte, come quello di Platone, che non considerava le donne solo come un utero. Ma nello schema drammaturgico ateniese a farsi portatori di un pensiero diverso dalla morale vigente erano sempre gli esclusi dalla cosa pubblica: le donne e gli stranieri. Peraltro la commedia si proponeva di ironizzare su una certa etica affermata dalla tetralogia tragica. Separarle nell’esecuzione significa spogliare di intenzionalità qualsiasi fatto e contenuto scenico.
La rivisitazione di “Donne al parlamento” è uno scempio di cui inorridirebbe anche Aristofane. Il livello di consapevolezza sulle differenze di ruoli sociali e sugli orrori dell’egualitarismo comunista a tutti i costi non è quello dell’età classica. Ne “Le donne al parlamento” si ironizza malamente sulle violenze (simboliche) perpetuate ogni giorno sui corpi dei subalterni. Sono costernata nell’appurare che persone mature siano disposte a ridere sulla violenza richiesta e implorata. Fa ribrezzo non intravedere la minima traccia di lavoro sul testo affinché la pur legittima caricatura di un’utopia non risulti il varietà della domenica. Mi indigno ancor di più per gli attori, protagonisti di una sceneggiata in cui a mancare è proprio la satira. I CCCP – Fedeli alla linea in funzione corale sono l’eco amara di un filo rosso politico da sbrogliare. Insieme all’intenzione di far ridere. Ma dicendola con Sartre, noi rivoluzionari materialisti siamo persone serie e noiose.
https://youtu.be/fqBXQD4X13c