Lo “Studio da Le Baccanti” di Emma Dante delinea bene i confini della scena.
Solo segnando le quattro pareti del palco, Emma Dante può iniziare a giocare con lo spazio scenico. Neanche un centimetro della pedana viene risparmiato. È singolare come in proporzione riescano a occupare più superficie personaggi individuali che quelli collettivi. Nelle coreografie l’individuo è annegato nella potenza dell’orda. Nell’energia esplosiva della collettività si decompone il singolo, come anche l’istituzione che di questo si prende cura. Un’istituzione che sembra già spogliata di ogni credibilità. Il colore scelto per rappresentare il potere è il fucsia, che colora i pantaloni di Penteo, alcuni dettagli dei vestiti dei suoi funzionari di corte e, in una versione totalmente sbiadita, le vesti delle figlie di Cadmo. Colore ambiguo, il ciclamino, che ricorda quel rosa tipicamente femminile, ma anche il rosso regale.
La coralità distruttiva delle Baccanti non trova solo forma visiva in un’orda coinvolgente e travolgente. Il coinvolgimento passa anche attraverso la musicalità, che ha preso forma di melodia cantata. Non finirò mai di apprezzare chi sceglie di riportare i cori tragici alla forma originale. Persino in una resa coraggiosa come in quella de “Lo studio da Le Baccanti”. Perché bisogna osare tanto per scegliere un tappeto sonoro elettronico. Dunque un sentito ringraziamento va, senza pensarci troppo, a Serena Ganci, che ha curato magnificamente la scrittura delle musiche, interpretate perfettamente dal cast. Forse alla chiusura del primo atto si è abusato della pazienza del pubblico con un uso invadente delle luci, che nei restanti quattro risultano più misurate.
La riflessione che genera “Studio da Le baccanti” concepisce Dioniso doppio.
La riflessione che genera “Studio da Le baccanti” concepisce Dioniso doppio. Approvo senza freni e senza dubbi della rappresentazione esterna della coralità che è anzitutto interna all’individuo. Dioniso è lo straniero che viene a portare scompiglio a Tebe. È straniero perché i suoi rituali sono diversi rispetto a quelli richiesti dagli altri dei. I misteri dionisiaci sono estremi, vanno al di là di ogni principio di ragione. Solo Dioniso può farlo perché, accettando la sua doppia natura, accetta lo straniero dentro di sé. Dal canto mio, accetto molto meno l’utilizzo della mediazione culturale del cristianesimo, che non si capisce bene cosa volesse veicolare in scena.
Fa piuttosto sorridere quella che sembra la simulazione della navata di una chiesa al momento del giudizio dello straniero di fronte all’autorità di Penteo. Presumibilmente si vuole creare un clima da Santa Inquisizione, smorzato molto dai colori frivoli dell’abbigliamento e dal piglio capriccioso scelto per il re di Tebe. O magari si vuole azzardare a lanciare un ponte tra la figura di Cristo e quella di Dioniso. In fondo, entrambi sono figli di Dio – o del dio per eccellenza, nel caso di Zeus – la cui natura divina è incastrata in un corpo umano. Ma al di là di quanto la tradizione li abbia sovrapposti, soprattutto quella tardoantica, resta un parallelismo debole e fuori luogo.
La regia a strati di simboli di Emma Dante si fa, e non c’erano dubbi, apprezzare.
Le danze delle Baccanti al momento della trasfigurazione, rivelazione della natura divina dello straniero, sembrano gettare un altro ponte culturale, stavolta col Tantrismo indù. Dioniso, grazie alle braccia delle sue sacerdotesse, diventa Kālī. Che sia un riferimento alle scorribande del bel giovane lungo tutta l’Asia? La riappropriazione in territorio culturale pagano della processione, adottata anche dal cristianesimo occidentale, è invece un’arma a doppio taglio. Nel momento in cui una ritualità viene assorbita da un contesto culturale diverso, difficilmente si è poi disposti a riconoscerne la paternità originaria. Non è un caso se alcuni dal pubblico proprio in quel momento abbiano deciso di abbandonare la sala.
Tuttavia, la regia a strati di simboli di Emma Dante si fa, e non c’erano dubbi, apprezzare. Resta il fatto che “Le Baccanti” è probabilmente uno dei testi più difficili di Euripide. Non si solidarizza con nessun personaggio, né con Penteo né con Dioniso, perché è straniero divino (e di-vino). Impossibile trovare un piano di comprensione con le Menadi, vittime della loro stessa furia. Possiamo essere avvezzi quanto vogliamo allo sperimentalismo in teatro, ma Euripide resta un boccone davvero amaro da mandare giù. Anzitutto perché manca un contesto di riferimento, con cui lui gioca e di cui si fa beffe, portando in scena la crisi del suo tempo, senza essere capito neanche allora. “Le Baccanti” non è un classico, sebbene venga direttamente dall’Atene del V secolo. Con “Studio da Le Baccanti” Emma Dante batte un sentiero che potrebbe essere diverso per ogni regista. Proprio perché mancano regole da infrangere.