Quando si esaurisce lo slancio dato dalla passione del primo periodo, l’abitudine e la routine sono una voragine che rischia di inghiottire qualsiasi moto di iniziativa. Da un lato c’è la vitalità di una pulsione, che quando si esaurisce lascia posto ad un meccanismo ripetitivo, che ha una chance di non essere percepito nel momento in cui la routine viene accettata come forma dell’eternità che all’uomo non appartiene. Qui è la profonda contraddizione antropologica, che in “Fosse” è rappresentata perfettamente dai quattro personaggi: lui (Enrico Maria Carraro Moda), la madre (Adele Pani), l’amante di lui (Federica Di Benedetto), la moglie (Larissa Cicetti).
Lascia stupefatti come attraverso lo strumento drammaturgico Enrico Maria Carraro Moda sia riuscito ad inquadrare la ripetizione come dimensione in cui vita e morte acquistano significato all’interno dell’esistenza.
Lascia stupefatti come attraverso lo strumento drammaturgico Enrico Maria Carraro Moda sia riuscito ad inquadrare la ripetizione come dimensione in cui vita e morte acquistano significato all’interno dell’esistenza. Quale luogo di sintesi di questo impasto antropologico è più efficace del cimitero? Nella cornice in cui l’autore ha steso le lugubri pennellate della storia c’è una panchina, che prende il posto del classico divano al centro della scena; c’è un leggio vagamente illuminato sul fondo; c’è una lampada di lato sul proscenio, capace di diradare completamente le tenebre del cimitero, accesa solo dalla moglie; ci sono infine due bicchieri, morbosamente usati dai coniugi per bere quasi come per prendere aria, un semplice gesto precluso all’amante.
La ripetizione in scena dell’incontro tra i due amanti sposta la vicenda in un tempo sperimentale (come lo spettacolo portato in scena) in cui l’esperienza è riproducibile, reiterabile fino a che non acquisisce la forma da lui voluta, cercata. “Mi sei mancata” esordisce laconico. “No, ci siamo mancati” gli ribatte. Non è solo una dichiarazione di nostalgia, ma la denuncia dell’amante dell’essersi sfuggiti, di aver perso un’occasione che torna solo grazie all’espediente scenico. Tutto può essere perfetto nel momento in cui il tempo si è dileguato perché è finito. La bravura degli attori si spinge al punto da potersi permettere di lasciarci a guardarli per infiniti minuti, scanditi da una musica tanto romantica quanto agghiacciante, noi ad aspettare che il quadro cambi, loro ad osservare ingenuamente il tramonto. Gli eventi non sono rappresentati in progressione cronologica: esiste solo un dentro e un fuori dal cimitero.
Il copione libera la verità di ciò che è stato attraverso lugubri rimandi a frammenti di vita narrati con la leggerezza d’obbligo quando qualcosa non ha più importanza. Leggerezza che trova un perfetto riscontro nella fantastica interpretazione di Federica Di Benedetto.
Il copione libera la verità di ciò che è stato attraverso lugubri rimandi a frammenti di vita narrati con la leggerezza d’obbligo quando qualcosa non ha più importanza. Leggerezza che trova un perfetto riscontro nella fantastica interpretazione di Federica Di Benedetto. Gli amanti trovano estremamente esilarante il fatto che l’unico regalo che lei gli abbia fatto fosse mezzo corredo mortuario, comicamente indossato dall’inizio. Il richiamo della madre alle responsabilità coniugali suscita solo impertinenza in Enrico Maria Carraro Moda, che però alla fine sembra raccogliere furbescamente il monito. La scelta di indebitarsi col custode del cimitero per comprare un talamo funebre da condividere con la moglie indica, probabilmente, un riconoscimento del valore di quella routine da cui poteva fuggire con l’amante accompagnandola nella morte cancerosa. Si impone tragicamente l’ineluttabilità della ripetizione, che continua ad essere possibile grazie alla creazione di un solitario ritmo sessuale da parte della moglie (un’insostituibile Larissa Cicetti).
“Fosse” descrive egregiamente il dramma della quotidianità. Questioni urgenti come la crisi, l’amore, la routine, la paura dell’assenza, l’ansia della presenza, portate in scena dall’associazione I Nani Inani non sono così opprimenti quanto questa recensione. Tuttavia resta un copione tessuto e pensato da un uomo. Un certo stigma sociale dà forma al personaggio maschile, che nella rappresentazione è libero di vivere la sua irresponsabilità quanto di essere incastrato nelle pieghe della sua indecisione. Le figure femminili aspettano il transito dalla crisi alla routine, un passaggio determinato da una presa di decisione esterna alla loro volontà. Ciò non toglie che la questione antropologica e psicologica portata in scena, vera e rilevante, non perde una briciola del suo immenso significato a causa del punto di vista adottato. D’altronde, lo spettacolo stesso ci ha insegnato che certe cose non possiamo sceglierle.