Ciao Francesco! Benvenuto sulle pagine di Music. it. Rompiamo subito il ghiaccio con una domanda che ci piace tanto fare, ovvero: esiste un episodio particolarmente vivace che hai vissuto nella tua carriera di musicista? Niente che si sappia già!
Nel 1998 avevo quindici anni e vivevo a Nairobi. Erano i miei primi passi da musicista. Con la band dei miei amichetti della scuola (eravamo in tre in classe e suonavamo tutti insieme) ci siamo esibiti di fronte ai bambini, genitori e insegnati della Scuola Giapponese, in una specie di giornata di gemellaggio. Abbiamo suonato “Kiss the Rain” di Billie Myers e “Don’t Look Back in Anger” degli Oasis. La seconda, in particolare, la cantavo io. Ecco: posso dire di aver stonato molto male di fronte a un auditorium gremito di giapponesi.
Il tuo percorso inizia ufficialmente nel 2001. Dall’esperienza punk sei approdato a Torino riscoprendoti cantautore. Come ti racconteresti se dovessi farlo attraverso le tue influenze?
All’inizio erano soprattutto gli Oasis – poi è arrivato il rock un po’ più pesante. All’epoca uscivano “Load e Reload” [Metallica], il primo dei System of a Down, “Follow the Leader” dei Korn, “Roots” dei Sepultura, gli Offspring. Poi mi hanno fatto scoprire i Bad Religion, i NOFX, i Lagwagon. Nel frattempo, in casa mia si era infiltrato “Ok Computer” dei Radiohead, che come un virus è andato crescendo negli anni. Quando nel 2000 sono tornato in Italia, sono stato un utente di Napster, e via internet ho cominciato a seguire la genesi e la promozione superavanguardistica di “Kid A”. Da lì tutto è cambiato e i Radiohead sono diventati la mia massima influenza. Nel frattempo andavamo scoprendo la musica degli anni sessanta/settanta, soprattutto “The Piper at the Gates of Dawn” dei Pink Floyd e la discografia dei Led Zeppelin. Poi i Joy Division.
Qualcosa mi dice che potresti andare avanti a lungo!
Sì! Poi Damon Albarn s’è inventato i Gorillaz e anche quello ha abbastanza sparigliato tutto, assieme al disco di Deltron 3030. In tutto questo ci si innamorava anche dei Marlene Kuntz e degli Afterhours. All’università c’è stata la fase Bob Dylan, l’ascolto approfondito di Beatles e Fabrizio De André, un po’ di prog, un po’ di funk. Il folk revival di Bert Jansch e Davy Graham è stato un momento importante, la scoperta del fingerpicking e di una musica acustica “ad oltranza”. In tutto questo dimentico di citare Beastie Boys e Beck, che ho conosciuto molto presto nella vita e me li sono portati praticamente durante tutto il percorso, dai primi anni 2000 a oggi. Dentro la mia testa e nei miei sogni da ragazzino c’è stato e c’è tutto questo.
A proposito di influenze, vorrei sapere in quale modo i luoghi in cui hai vissuto hanno agito sulla tua produzione.
In tanti modi. Le persone. Gli strumenti. Le modalità. I generi. Spostandomi tanto mi sono fatto molto influenzare dai gusti e anche dai modi di suonare e intendere la musica di quelli che ho incontrato. Devo dire che suonare in gruppo rimane l’esperienza più bella. Le cose che vengono fuori sono sempre uniche e irripetibili. Anche se poi, negli anni, di spostamento in spostamento, è andata a finire che facessi una “sporta” di canzoni scritte in momenti di solitudine, di intimità, e che quelle poi finissero nei dischi. Figlie di un padre che aveva iniziato con la voglia di scaricare tutta la rabbia adolescenziale su una chitarra elettrica, e che crescendo è diventato una persona che ama bisbigliare le cose, accarezzando le corde di un’acustica.
Cosa fa Francesco Rigoni quando non scrive musica?
Lavora! Scherzi a parte, ho passato quasi quindici anni soprattutto a “mangiare troppo”: leggere tutti i libri che potevo, guardare tutti i film che potevo, ascoltare tutta la musica che potevo. Poi ho scoperto la meditazione, ho ri-scoperto lo sport. Mi prendo cura di me stesso. Sembra una cosa banale da dirsi, ma credo che imparare ad amarsi per amare invece sia quasi diventato un imperativo, nel mondo contemporaneo. Per non farsi trascinare nell’iper-consumismo, nell’iper-egoismo, nell’iper-narcisismo. Ecco: quando non scrivo canzoni, faccio il filosofo.
Il tuo primo LP “Continua a mangiare troppo” del 2016 è diverso da quest’ultimo “Cosa è Reale”. Vorrei domandarti cosa è cambiato tra le due produzioni. Cos’ha “Cosa è Reale” che “Continua a Mangiare Troppo” non ha, a tuo avviso?
Il rock! In Cosa è reale ci sono le chitarre con le distorsioni, il basso pompato, la batteria, l’orchestra. E poi c’è una storia, un mondo di fantasia, un’ambientazione. “Continua a mangiare troppo” è un disco intimo, solitario, silenzioso. “Cosa è reale” è un metaforone, un trip. Ha un messaggio più diretto, un vigore diverso. Ha più muscoli.
Come definiresti “Cosa è Reale” in una parola?
Rinascita.
Domanda di rito: qual è il concerto che Francesco Rigoni non può assolutamente perdersi?
Nella vita o quest’anno? Quest’anno potrei direi il ventennale di “Mezzanine” dei Massive Attack (non li ho citati, prima? Ci metto anche i Portishead) che ho visto a Padova. Un concerto eccezionale, una musica che ancora oggi ha molto, moltissimo da dire. Nella vita? Ho visto i Rolling Stones, ho visto i Beastie Boys. Mi mancano Damon Albarn, Beck, e forse i Pearl Jam (non li ho detti, prima? Ci metto anche i Nirvana). Poi posso dirmi a posto. Ho visto anche Gil Scott Heron! Mi reputo molto fortunato.
Progetti per il futuro?
Nell’ultima occasione in cui mi sono esibito, ho intervallato canzoni e monologhi. Non mi spiacerebbe approfondire questa direzione: trasformare un concerto in un racconto. Un’esperienza più integrata, più compatta. Anche perché sento che sta per arrivare il momento in cui sarò pronto a cimentarmi a scrivere al di fuori della musica…
Abbiamo concluso! Lascio a te le ultime righe: che raggiungano “cosa è reale” per il nostri lettori! Grazie e a presto!
“Cosa è reale” è un pretesto, un’occasione per ribadire ancora una volta che, in un mondo sempre più freddo e superficiale, da soli non si va da nessuna parte. In un mondo che si racconta come sempre più egoista, addirittura condannato all’estinzione ecologica (!), bisogna riscoprire la spiritualità, il simbolismo dietro le cose della vita, la ritualità, attraverso l’incontro con l’altro e la vita in comunità/comunione. Non a caso, l’ultimo brano si intitola “La verità”: la rinascita è la scoperta della verità, perché la verità ci fa rinascere, e la verità è questa. Grazie a voi, e buon ascolto!