“Dagos” colpisce. Per prima cosa per la sapienza con la quale mescola stoner rock, folk siciliano e progressive in un unico, malato involto. Poi perché un’opera di questa maturità è il primo full lenght della band, di origini siciliane ma abitanti a Londra. Gli Skull Above the Cannon sono un trio, formato da Giulio Matheson (voce, chitarra) Ettore Scuderi (basso) e Daniele Giustolisi.
Nel 2014 decidono di creare la band, incentrando la loro ricerca musicale sulla tematica del viaggio. Un EP dell’anno successivo li segnala subito come band da tenere d’occhio. Non a caso Edu Falaschi degli Angra se li prende come numero di apertura di qualche suo concerto italiano. Nel 2016 comincia la produzione dell’album di cui si parla oggi, e bisogna ammettere che il lungo lavoro di rifinitura si sente eccome.
In “Dagos” le influenze dei Tool e dei Pantera danno vita a un lavoro fresco, maturo ed incisivo
L’influenza dei Tool, come una cappa di sigarette alla ricina, si respira forte fin dalle prime battute dell’album, soprattutto nel comparto strumentale. Il basso di Devil’s Tail ne è forse l’esempio più lampante. Il cantato ondeggia tra Maynard James Keenan nei momenti più stoner, cupi o meditativi e un Phil Anselmo dei Pantera nei momenti più thrash. Se quindi la base della musica degli Skull Above the Cannon è ispirata da queste due band, il tutto è modulato da inserti più stoner e momenti folk.
L’ombra della musica siciliana si ascolta a tratti durante tutto l’album, in piccoli accenni, a sottolineare quell’amore per la terra d’origine che caratterizza la band fin dalla scelta del nome (Skull Above the Cannon, come in “Vitti na crozza supra a nu cannuni”, famosa canzone popolare siciliana). Questo legame diventa evidente verso la fine dell’album. Una serenata siciliana funge da improbabile apertura per “Burst”, contorta smetallata che ha qualche punto in comune con i System of a Down.
La tematica della globalizzazione è concretizzata in un impietoso ritratto sonoro
Allo stesso modo, sotto il punto di vista tematico l’album ha parecchie cose da dire. La parola “Dagos” è un antico termine dispregiativo, usato dagli americani nei confronti degli immigrati latini alla fine dell’Ottocento. Proprio di globalizzazione, paure e populismo raccontano le tracce, mostrando le realtà dello sfruttamento e della manipolazione (“Pigmen”, “Dagos”) con una durezza e maturità espressive anche qui sorprendenti per una band nata nel 2014.
In conclusione, si tratta di un album in cui è difficile trovare momenti di stanca, e che presenta una cura e un’intelligenza compositiva non comuni. Lo consiglio a chiunque sia anche lontanamente interessato allo stoner, al progressive, o al thrash metal.