Sono volati in america per partecipare proprio con i brani di quest’album all’ International Blues Challenge. Ma è giusto esaminare più nel dettaglio quest’album. “Land of no return” è il perfetto brano da bar. Porta la classica immagine dell’uomo solo, seduto al bancone che beve l’ennesimo bicchiere di whisky e ripensa agli sbagli della sua vita. L’armonica suona una melodia triste, che la voce segue come un lamento.”They call him poet” cambia subito le carte in tavola, ricordando un po’ delle sonorità alla Eagles.
Da atmosfere più classiche ad atmosfere più dark, “Hinterland Blues” promette di regalare emozioni dalla prima all’ultima traccia
A seguire “Suicide Song”, un brano spinto, dove la manopola dell’overdrive si alza. L’armonica sta volta segue le chitarre, è lei a lamentarsi, forse delle scale minori e delle assonanze che caratterizzano questo brano. E ancora i Caboose riescono a spostare le emozioni solo con l’intro del brano con “Landslide”, che regala un brano dalle poche sfumature ma che va dritto al punto. Inutile dire che gli strumenti sono tutti padroneggiati alla perfezione dal trio.
Un viaggio tutto in discesa quello di “Hinterland Blues” che si sposta su atmosfere sempre più lente e calde fino ad arrivare alla title track. Un brano dalle mille sfumature, affrontato con tempi dispari e passaggi da scale minori e maggiori, fino ad arrivare alla chiusura in crescendo. Il lavoro si chiude con gli slide di “Freight train” e la cavalcata verso il sud di “Bloodhound”. Un ottimo lavoro quello dei Caboose, che regala poco più di una mezzora di puro piacere.