Una foto di scena di "Pezzi", andato in scena al Roma Fringe Festival.
Una foto di scena di "Pezzi", andato in scena al Roma Fringe Festival.

Il Blue Monday del ROMA FRINGE FESTIVAL con “Ave”, “AD-AMANT”, “Pezzi”

Il 21 gennaio è stato il vero Blue Monday. Il meteo ha iniziato a prepararsi fin dal giorno prima, impedendoci di vedere la grande luna rossa. Ma al riparo dalla pioggia nel padiglione Pelanda del Mattatoio, un po’ di malinconia si è diradata grazie agli spettacoli del Roma Fringe Festival.


AVE

Il salone del parrucchiere è uno dei luoghi in cui circolano la maggior parte dei pettegolezzi di paese. E il professionista dei capelli è il custode della maggior parte dei piccoli drammi che orbitano nell’universo femminile. I capelli sono una faccenda molto seria. A partire da questa semplice idea lunAzione struttura la vicenda di “Ave”, che debutta sul Palco A del Roma Fringe Festival il 21 gennaio. Una psicologa, un’assessore, una catechista, il parrucchiere e sua moglie vivono a Santa Maria del Pozzo. Sembrerebbe proprio l’inizio di una barzelletta. E ci sono tutte le carte in tavola per una commedia gradevole, potenzialmente in grado di aprire uno spaccato sulle realtà rurali italiane. Tuttavia la scrittura collettiva che ha portato alla composizione di “Ave” trova il suo grande limite nella refrattarietà dei molteplici spunti a collimare in un lavoro davvero organico.

Cesare continua a sognare la vergine Maria che gli chiede un ex voto piuttosto esoso. La donazione sembra assumere le tinte fosche del pizzo mafioso a partire da un lapsus sulla denominazione del paesello campano. Di lì una serie di incidenti al salone, per cui Cesare si fa suggestionare dall’insistente immagine onirica. Questo è l’evento da cui sembra prepararsi un ventaglio di possibili chiuse: mafiosa, psicanalitica e persino spirituale. Tuttavia nel monologo finale si perde la ragione della scelta di assecondare l’allucinazione, che nel frattempo è degenerata in psicosi collettiva. Un limite testuale che si è tradotto in limite registico. Con un vuoto simile, la regia di Eduardo Di Pietro si dimostra brillante nella prima metà dello spettacolo e segue inevitabilmente l’opacità della drammaturgia nell’ultima parte. “Ave” si presenta come frutto di un laboratorio piuttosto che un lavoro maturo, sul fronte registico, drammaturgico e anche attoriale.


AD-AMANT

“AD-AMANT” è un gioco di parole difficile da sciogliere. Interpretandolo con l’inglese, il significato approderebbe all’ostinazione. La radice romanza devia verso una dedica, a colui che ama. Entrambi gli etimi sono vivi in “AD-AMANT”, pièce teatrale dal sapore pop che affronta il tema dell’amore ai tempi dei social network. Il sexting, la visibilità, la virtualità, l’internet-connessione è la chiave su cui si avvita la riflessione del gruppo ADAMANT. Un ragionamento che inizia instaurando un legame tra attori e platea, invitando a tenere i telefoni accesi, sebbene silenziosi. Il palco è diviso in tre sezioni da led luminosi che, insieme alle notifiche sonore, accompagneranno l’intera durata della narrazione. Le storie di vita apparentemente sconnesse di Pax, Gi, Luz, Fas, Meo e Ty-o si intrecciano per coincidenza, quella fatalità a cui nessuno sa più rispondere con una strategia istintiva.

Attraverso i dispositivi elettronici, naturale prolungamento della persona, si pensa di avere la propria vita sotto controllo. E si pecca di presunzione pensando di riuscire ad avere una qualche influenza su quella degli altri. Ma “AD-AMANT” non si ferma qui. Gli spettatori sono coinvolti nella e dalla riflessione sulla produzione artistica, e sul circolo vizioso che si crea tra fruitore e creatore di arte che, per sopravvivere nell’era della riproducibilità tecnica a basso costo, dà al pubblico ciò che vuole. Una riflessione che ha una ripresa all’interno dello spettacolo, fondamentale per l’esito della pièce. Gli attori creano uno spazio scenico dilatato, in cui ogni azione e ogni parola è sovradeterminata. Anche i servi di scena non sono dei semplici figuri in maglia nera che sistemano oggetti durante la performance. Come deus ex machina ristabiliscono l’ordine ogni qualvolta un attore cede alla propria tracotanza.

La regia fresca e interattiva di Margherita Laterza si sposa bene con l’involuta drammaturgia di “AD-AMANT”. A sbavare la piena riuscita dello spettacolo è la vocalizzazione non perfetta degli attori quando i toni della scena si fanno intimi. Tuttavia, non tutti cedono alla tentazione del naturalistico cinematografico. Risulta poi petulante l’omogeneità di stile nella declamazione dei monologhi che costituiscono la chiave interpretativa dello spettacolo. Probabilmente evitando l’affettazione e rispettando la diversità caratteriale dei personaggi, si sarebbe scongiurato l’effetto monocorde. Resta uno spettacolo con diversi punti di forza, che vanno da una drammaturgia non banale a una regia dinamica e brillante, a uno stile scenico frizzante. Mi chiedo come sia possibile che, nonostante “AD-AMANT” ecceda i tempi previsti dal regolamento del Fringe Festival, il finale risulti sdoppiato e tagliato in maniera incoerente.


PEZZI

Pezzi. Perdere pezzi, spezzettarsi, conservare pezzi, rimettere insieme pezzi. Persino la scenografia, organizzata in scatole di legno, contiene pezzi di vita troppo dolorosi, che devono essere toccati, accarezzati, e compianti. Tradizionalmente in Italia l’albero di Natale si fa l’8 dicembre. Festività e ambiente familiare costituiscono la cornice in cui Laura Nardinocchi, con semplicità e maestria disarmanti, ci racconta la dolorosa esperienza del lutto. Il limite che divide la coerenza stilistica da un andamento soporifero di un’opera è davvero sottile. Ma “Pezzi” di Rueda Teatro non cede neanche per un istante alla piattezza espositiva.

Sono maschere al contempo caricaturali e agrodolci quelle indossate da Ilaria Fantozzi, Ilaria Giorgi e Claudia Guidi. Delle maschere con cui caratterizzano i tre personaggi dall’inizio fino alla chiusura. “Pezzi” non pretende di essere innovativo dal punto di vista drammaturgico. Teatro Rueda non è uno studio per portare con forme espressive visive e sensuali concetti alti. Eppure la caricatura della mamma apprensiva Ilaria Giorgi ci conduce nel vortice di un’intimità complessa. L’insofferenza adolescenziale di Marina (Claudia Guidi) scivola nelle contraddizione dilanianti, tra responsabilità ed egoismo, di chi è cresciuto troppo in fretta. Maria (Ilaria Fantozzi) immagina un mondo colorato e pieno di cose belle, che cozza tristemente con la freddezza dello spazio familiare in cui vive.

I flashback sono un’occasione di approfondimento della genesi di un quadro emotivo, imprescindibile da una modifica dello spazio scenico studiata nei minimi dettagli. Attraverso una comunicazione sofferta la mamma, Marina e Maria possono curarsi vicendevolmente. La drammaturgia di Laura Nardinocchi è attentissima alla caratterizzazione della coralità tutta femminile, che si appoggia sui solidi timbri vocali delle attrici e sulla loro padronanza di movimento. Ottimo è la sintesi perfetta di tutte queste parole, che non rendono giustizia alla professionalità artistica che Rueda Teatro dimostra di avere con “Pezzi”. Davvero un lavoro pregiato.


L’opera d’arte è un messaggio fondamentalmente ambiguo, una pluralità di significati che convivono in un solo significante.

Umberto Eco

Persino le parole scritte sono simboli sovradeterminati, figuriamoci quando l’arte le lega a rappresentazioni complesse come quelle del teatro. Eppure, al di là dell’ambiguità del segno scelto, l’efficacia sta nel sentimento che l’appercezione suscita nel soggetto d’esperienza. La meraviglia nell’apprezzamento è sempre più spesso un miracolo che una solida realtà.

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