Chi è l’uomo che uccise Don Chisciotte? La costruzione di un personaggio invera un doppio crimine: il suicidio e l’omicidio.
Da anni rimestato, sfruttato per un documentario che ne ripercorre le traversie, “Lost in La Mancha”, il Don Chisciotte di Terry Gilliam è nato e ha raggiunto la maturità ancor prima di vedere la luce sullo schermo. Preda di controversie produttive e alluvioni realizzative che lo hanno accompagnato fino all’ultimo, finanche alla presentazione a Cannes quando il film, inizialmente previsto per la sezione principale, è stato relegato al Fuori Concorso, Terry Gilliam ha trattenuto nella mente il suo progetto a lungo, fino a regalarci ancora una volta un film formato coraggio.
Toby (Adam Driver), cinico e disilluso regista di spot pubblicitari, si ritrova preso nella trappola delle illusioni di un vecchio calzolaio spagnolo, Javier (Jonathan Pryce) convinto di essere Don Chisciotte. Imbarcato in una folle avventura di volta in volta più surreale, Toby deve far fronte alle tragiche conseguenze di un film realizzato durante la sua gioventù idealista, e che ha cambiato per sempre i sogni e le speranze di un intero piccolo villaggio spagnolo.
Terry Gilliam ha partorito il suo ennesimo gigante. La sola attesa basterebbe a decretarne il pregio.
“L’uomo che uccise Don Chisciotte” è un film sull’ambizione creatrice che diventa ossessione distruttrice, sui sogni e le velleità artistiche di qualunque regista che, per dare forma alla propria opera, si appropria di un luogo che non è suo per trasformarlo in un set, si impossessa di persone reali per nasconderle e annullarle dietro personaggi fittizi. Alla fine, quando l’ultimo “stop” è chiamato a gran voce, il creatore non si preoccupa di ciò che la propria ambizione ha determinato sugli strumenti di cui si è servito. Il Toby di Terry Gilliam, come il suo intero film, è un atto di riparazione. Purtroppo si tratta di un’ammenda tardiva e che non può sottrarsi alla propria responsabilità alienatrice.
Ma Toby ritorna a Los Sueños, il paesino della Mancia dove in gioventù aveva trovato il cast del suo film/saggio di diploma, non spinto da volontà redimenti ma dal bisogno di saccheggiare ancora, per risolvere una scena inceppata, per rinverdire la propria ispirazione fallita. Giunto sul posto si renderà conto di non aver portato altro che sventure ai suoi abitanti e ancor peggio al suo sventurato protagonista. “Don Chisciotte vive” indicano le frecce sull’asfalto, su una baracca e infine sulla porta di una roulotte. All’interno scopre che il suo film si è fatto infinito, proiettato su un lenzuolo e sonorizzato dalla voce di Javier, eterno cavaliere errante.
Il Toby di Terry Gilliam, come il suo intero film, è un atto di riparazione. Purtroppo si tratta di un’ammenda tardiva.
L’uomo è costretto di continuo a recitare, o meglio a essere un personaggio fuoritempo in un mondo che si è fatto pericoloso. Il set è dismesso, il film è finito, l’arte libera si è fatta impossibile in una società di capitalisti, di produttori porci e di attrici assoggettate all’uomo. Che fare in un mondo del genere? L’unica soluzione per il regista è rendersi complice della finzione, fingersi Sancho Panza e montare in groppa a un mulo, seguire il vecchio cavaliere errante alla ricerca di una dama a cui dedicare ancora le proprie imprese. Ma non ci sono più donne salvabili, le avventure scarseggiano e i mulini a vento sono diventati eolici.
Tuttavia, se le monete continuano a diventare rondelle, i mulini sembrano ancora giganti e le pecore spaventano di nuovo come arabi, allora il potere dell’illusione è rimasto immutato, fortificatosi nella sua natura ambivalente, ora salvifica ora distruttrice. Il ruolo di Don Chischiotte ha portato Javier alla pazzia, ma al contempo gli ha permesso di sopravvivere. Ma fino a quando? La risposta del regista è amara: possiamo essere noi stessi o ciò che crediamo di essere solo finché gli altri ce lo concedono. Si tratterà in ogni caso di una concessione sociale falsissima, una sciarada coreografata ad arte in cui tutti ricoprono un ruolo e indossano una maschera, invitandoci a indossare abiti di scena, a bruciare i nostri vecchi valori e a vedere il folle “come un bambino iperattivo”, “a far finta che sia Trump”.
Il ruolo di Don Chischiotte ha portato Javier alla pazzia, ma al contempo gli ha permesso di sopravvivere.
La regia è lucidissimo nel tradurre al presente l’opera di Cervantes, attualizzandone il potenziale visionario senza perdere nulla nel trasbordo dalla letteratura al cinema. Il romanzo spagnolo rivive ai nostri giorni senza snaturarsi, semmai ampliarsi. Come aveva dimostrato in “Brazil” (1985) e ne “Le avventure del barone di Munchausen” (1988), il regista attinge alla fonte letteraria per rilanciane il discorso, ne rivela il potenziale latente ampliando i termini della comprensione. Terry Gilliam costruisce un melting pot di tempi e di generi in cui la Sacra Inquisizione incontra il terrorismo islamico, dove la CGI abbraccia l’artigianalità dei costumi, delle scenografie, e si intravedono frecciate alla Russia di Putin e alle ipocrisie del Me Too.
Chi è l’uomo che uccise Don Chisciotte? La costruzione di un personaggio invera un doppio crimine: il suicidio, quello dell’attore che uccide se stesso per essere il personaggio, e l’omicidio del regista che uccide l’attore per avere il personaggio. Attore e regista intrattengono una complicità insieme mortifera e creatrice, un disperato patto di mutua assistenza per far fronte a un mondo in cui non c’è più spazio per artisti, visionari e sognatori.