Nonostante ampie concessioni finanziarie e un accordo siglato due anni prima a garanzia dei posti di lavoro, ora si è deciso diversamente: lo stabilimento automobilistico di Perrin, situato in una regione economicamente debole della Francia, dovrà chiudere. Così è stato stabilito alla casa madre tedesca, malgrado questa decisione metta a repentaglio il futuro di 1.100 lavoratori, poiché nella zona non vi sono praticamente altri posti di lavoro. Le reazioni non tardano ad arrivare: sotto la guida del sindacalista Laurent Amédéo (Vincent Lindon), la protesta comincia a montare. I lavoratori vanno alle barricate, invocano l’intervento della direzione locale e avanzano soltanto una richiesta: sedersi al tavolo delle trattative con l’amministratore delegato della sede centrale. Grazie alla loro caparbietà, i lavoratori riescono a intascare piccole vittorie parziali. Ma una singola battaglia vittoriosa non significa vincere la guerra, soprattutto quando i soldati operai non sono affatto coesi su come raggiungere l’obiettivo.
“In guerra” è la riproposizione della lotta impari della persona comune schiacciata dagli ingranaggi spietati dell’economia.
A prima vista potrebbe sembrare un titolo esagerato, ma la guerra combattuta nel film di Stéphane Brizé non è una guerra di battaglie decisive in cui tutto è finalizzato a infliggere in un colpo solo la sconfitta al nemico. La personalità di Laurent non è fatta per una guerra del genere, non è un’arma adeguata a manovre improvvise o rapide. La sua modalità d’azione è quella del fuoco di batteria, e la guerra in cui viene usata può essere solo quella di logoramento. Resistere quindi, ma questa resistenza è un bene fragile che richiede d’essere ravvivato costantemente dal fuoco della solidarietà di classe. E non c’è mantice più efficace della prospettiva concreta di un obiettivo raggiungibile, anche se ingiusto. Questo è il compito imposto a Eric Laurent nel film. Nella sua voce deve concentrarsi la protesta dell’intera classe lavoratrice e poi dare a questa una direzione e una coesione interna.
Nella prassi di un film-saggio Stéphane Brizé traccia il meccanismo del processo di sciopero. Le fasi della protesta si susseguano a un ritmo turbolento. Prima c’è lo shock e l’indignazione, dopodiché il lavoro viene spontaneamente sospeso. La responsabilità passa nelle mani della gestione locale che afferma che la decisione non è imputabile a essa ma alla casa madre. Invano, gli scioperanti aspettano un segnale positivo dalla Germania. A questo punto, con l’aiuto di un avvocato del lavoro, seguitano i primi passi legali per citare in giudizio la violazione dell’accordo sociale di 2 anni prima. Dopotutto, è stato stretto un patto con la società con cui i lavoratori accettavano il blocco salariale in cambio di un impiego a tempo indeterminato. A poco a poco le azioni si acuiscono e la rabbia cresce perché, nonostante i sacrifici finanziari fatti dal personale, la direzione tedesca vuole incrementare il proprio capitale attraverso la delocalizzazione.
“In guerra” tenta di svelare i meccanismi sociali o neoliberali che operano dietro le quinte.
La protesta entra nel vivo potenziata da megafoni e striscioni. Ma tutti restano fermi sulle proprie posizioni. Per i delegati sindacali è il momento di dare la stoccata finale ed esigere il rispetto degli accordi collettivi e degli impegni presi dalla società. È a questo punto che le crepe nella comunanza degli scioperanti diventano tangibili: esisteranno fino all’ultimo nella protesta o accetteranno il piano di licenziamento? La posizione del regista è chiara: in un contesto neoliberista i dipendenti hanno poche possibilità di vincere. Possono far perdere denaro all’azienda bloccando la filiera e macchiandone la reputazione, ma alla fine i mezzi legislativi disponibili non consentono loro di impedirne la chiusura. Le sfumature e le riserve morali sono limitate perché al regista non interessa analizzare le differenze tra i lavoratori. Gli eroi sono Laurent e la sua squadra, una massa di uomini e donne che vivono credendo ancora nel valore della solidarietà.
L’approccio cinematografico del regista è molto più complesso delle riviste televisive a cui fa spesso riferimento col suo stile documentario. Con una cinepresa che si muove nervosamente tra il primo piano e le inquadrature di gruppo, Stéphane Brizé esamina la presunta obiettività dei servizi tv. Così facendo, “In guerra” tenta di svelare i meccanismi sociali o neoliberali che operano dietro le quinte. I suoni caotici della colonna sonora di Bertrand Blessing restituiscono efficacemente la cupa atmosfera della rabbia e del rancore nella fabbrica come al tavolo delle consultazioni. Servendosi di tre macchine da presa, la regia filma in maniera dinamica i negoziati che avvengono tra circa venti persone sedute intorno a un tavolo. In questo modo raffronta i diversi punti di vista delle parti in campo. Da un lato, ci sono i vertici della fabbrica che criminalizzano la protesta sociale. Dall’altro, i rappresentanti sindacali difendono il loro diritto morale.
“In guerra” non mette in ridicolo nessuno ed evita ogni forma di semplificazione o distorsione caricaturale nella rappresentazione dell’opposizione sociale.
Il confronto è motivo di feroci discussioni ideologiche su questioni spinose come il diritto di sciopero dei lavoratori e il diritto dei proprietari di decidere liberamente per i propri interessi. Questi possono essere esercitati indefinitamente? La legge sul lavoro non dovrebbe essere più flessibile? Come si possono proteggere i diritti di chi non ha voce in capitolo? Questo è ciò che il film continua a chiedersi. E se dai piani alti vengono intavolate soltanto argomentazioni finanziarie, è dai dipendenti in protesta che provengono le ragioni sociopsicologiche. Può un’azienda calare le serrande se ci sono altre opzioni? Il mediatore in campo illustra l’impotenza della politica a tal riguardo: non i politici ma le multinazionali detengono il potere e non devono rendere conto delle proprie azioni nel clima neoliberista dominante. “In guerra”, tuttavia, non mette in ridicolo nessuno ed evita ogni forma di semplificazione o distorsione caricaturale nella rappresentazione dell’opposizione sociale.
Sfortunatamente, in questa guerra non ci sono i vincitori sperati. Ma a Stéphane Brizé non interessa concedere alla realtà un finale diverso. Egli vuole mostrare i retroscena della notizia di uno sciopero o di un’agitazione sindacale, evidenziando ciò che di norma viene solamente citato: l’azione arbitraria delle multinazionali; l’impotenza dei lavoratori; l’inutilità della politica che risuona nei grandi discorsi ma che, in pratica, nulla può contro i dettami economici. Il lavoro registico apparentemente disadorno risulta efficace proprio per la sua intransigenza, lasciata poi esplodere in un finale che accompagna all’uscita della sala abbastanza storditi. Vincent Lindon è tanto credibile nel ruolo che, se non lo si conoscesse, parrebbe realmente un sindacalista. Ne ammiriamo la sincerità, l’intransigenza, la perseveranza, e soffriamo con lui quando il destino infierisce implacabile. Nella guerra contro le leggi del mercato i vincitori rimarranno astratti, ma grazie al regista e all’attore almeno i perdenti guadagneranno un volto.