Una scena della nuova serie di Netflix Italia che tratta il tema delle “Baby” squillo dei Parioli.

Le BABY squillo dei Parioli sbarcano su NETFLIX ma senza osare davvero

Alle soglie di questo 2018, è sbarcata sulla famosa piattaforma digitale Netflix, l’ultima produzione made in Italy. “Baby”, con i sei episodi della sua prima stagione, ci fa entrare in contatto con un mondo quanto vicino tanto circoscritto. “Un acquario bellissimo”, descrive la protagonista i Parioli, uno dei quartieri più benestanti della città capitolina. Per chi è nato e cresciuto a Roma, Parioli è il primo termine di una lunga catena associativa. Non significa solo un luogo, ma uno status, uno stile di vita, un’etichetta con cui potersi vantare. Parioli è sinonimo di ricchezza, benessere. Può descrivere una categoria socio-economica, politica, e al contempo un modo di vestirsi. Il tipico stereotipo del pariolino, che insieme al coatto o al rimastino, abitano il colorito immaginario romano.

“Baby” non è tardata ad arrivare, prendendosi il merito di serie imbonitrice della storia intima e privata delle baby squillo dei Parioli.

A ottobre del 2013, il nome del quartiere si macchia a livello nazionale e internazionale per un caso su un giro di prostituzione minorile. Protagoniste due ragazzine di quattordici e quindici anni, nominate dai media baby squillo. Adescate da organizzatori di feste notturne della zona, iniziarono a concedersi sessualmente a una serie di ricchi clienti. Questo scandalo, oltre a coinvolgere nomi importanti della Roma Bene, scosse l’opinione pubblica proprio per la giovane età delle due ragazze. Lo scorso anno Netflix e Fabula Pictures, sulla scia del successo di “Suburra – La serie”, annunciarono una pre-produzione con soggetto il caso in questione. Le polemiche non vennero a mancare, sopratutto per la delicatezza del tema in piena ondata #metoo.

“Baby”, però, non è tardata ad arrivare, prendendosi il merito di serie imbonitrice della storia intima e privata delle baby squillo dei Parioli. Chiara e Ludovica sono due ragazze apparentemente circondate da una vita perfetta. Hanno famiglie benestanti e sono di bell’aspetto. Frequentano un rinomato liceo privato e la sera si divertono nei vari party organizzati in maestose ville o lussuosi appartamenti dei loro compagni. Dietro questa bolla cristallina si nascondo problemi familiari portatori di malessere e un grande desiderio di affermazione di sé. Intorno a loro troviamo una serie di amici, ognuno alle prese con una relativa problematica adolescenziale.

“Baby” inizia come fosse il diario personale di Chiara, apparentemente la meno problematica delle due.

Essere parte di una “Élite” – per citare un altro prodotto Netflix assai simile – comporta anche una non completa libertà d’espressione personale. E questo porterà le due ragazze a frequentare di nascosto locali gestiti da due figure poco raccomandabili. “Baby” inizia come fosse il diario personale di Chiara, apparentemente la meno problematica delle due. Nel suo diario ben presenta il fantastico mondo dei Parioli. Ma, nel corso degli episodi, la volontà primaria del collettivo di sceneggiatori, Grams, sembrerebbe vertere sulle dinamiche relazionali tra Chiara e Ludovica con i loro amici e parenti. Veniamo sin da subito, se non troppo, fatti partecipi di tutto quel contesto. Relegando soltanto a sporadici momenti il loro avvicinamento al giro di prostituzione.

Raccontare compulsivamente gli intrecci dei vari personaggi secondari fa deviare “Baby” verso il teen drama su ragazzi benestanti. Sopratutto se sceneggiato con dialoghi scialbi, a tratti banali, da far emergere personaggi strutturati con manicheismo. Ognuno di loro rispecchia standard ben precisi, così netti da risultare prevedibili nelle loro azioni. Le due protagoniste, interpretate dalle giovanissime Benedetta Porcaroli e Alice Pagani, riprendono il ruolo del classico buddy movie al femminile. Delle moderne Marilyn Monroe e Jane Russell, per scomodare il capolavoro di Hawks, dove la prima è frivola e spensierata, la seconda reazionaria e autonoma. Un continuum di luoghi comuni, cinematografici e non, fin troppo esibiti e poco consoni al soggetto di base.

“Baby”, trattando liberamente vicende reali, perde il focus sul suo discorso originario.

Essendo un prodotto Netflix, ci si aspetterebbe una rottura rispetto alla norma, e invece ci ritroviamo i toni soliti da fiction nazionalpopolare. Un aspetto più apprezzabile è la regia di Andrea De Sica e Anna Negri. Strizzando l’occhio alla produzione seriale contemporanea, e all’ondata di retronostalgia odierna, verte su un formalismo piacevole e un uso di luci al neon ipersaturate. E fa emergere la volontà di esibire tutta una rete social, fatta di messaggi vocali, storie e profili Instagram, con cui non solo i protagonisti si identificano, ma creano e strutturano la propria labile personalità. Un aspetto certamente non nuovo, ma nel calderone reiterato che è “Baby”, dona uno spiraglio di genuinità all’opera.

“Baby”, trattando liberamente vicende reali, perde il focus sul suo discorso originario. Forse per mancanza di audacia, o forse per adattarsi a un pubblico più eterogeneo. Questa nuova serie Netflix, non si rivela al massimo delle sue possibili capacità. Manca quell’aspetto più crudo e turpe, di cui il soggetto di base è pienamente carico. Specie a fronte di una tradizione, specialmente italiana, di drammi giovanili già ampiamente prodotti. La speranza è di trovare una seconda stagione in cui le due giovani parioline, e le rispettive attrici, vengano messe di più alla prova. Tralasciando da parte dilemmi pregni di superficialità, che celano una profondità presente ma troppo edulcorata.

https://youtu.be/2O5ZyTqFbe8

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