Ma andiamo con ordine. Gianamarco Saurino è Ismaele, il giovane marinaio e voce narrante del romanzo melvilliano. Il suo approccio al personaggio si ferma nella scelta di mostrarne l’ingenua sfrontatezza, senza alcuna crepa emozionale attraverso cui filtri la presenza di una visione critica dell’immenso referente letterario. Non c’è evoluzione psicologica. Manca forse persino il senso della partecipazione alla vicenda narrata. Gesto e voce ricadono costantemente su dinamiche scontate, con un’accentuazione dei movimenti che ricorda la corporeità del musical, o l’esigenza di essere osservato in spazi ben più grandi dell’esiguo ritaglio di palco in cui ci si trova.
“Moby Dick, la bestia dentro” è una riscrittura ben poco accattivante del classico di Herman Melville, andata in scena con tanto di baleniera cartonata.
Stefano Sabelli è un Achab di notevole presenza scenica, dalla vocalità manierata ma potente, con cui potrebbe incarnare la cupezza che appartiene al personaggio. Senonché l’interpretazione resta limitata al registro collerico, con appiattimento totale di un carattere che nel testo originale trascina mezza storia dell’Occidente filosofico. Persino macchiettistica è la scelta dei costumi: la gamba di ferro, lo stigma in cui dovrebbe essere inscritto il segno della bestia nella carne del capitano, è più finta del leggendario Garpez. Stefano Sabelli cammina senza denunciare alcuna percezione dell’ostacolo, come fosse al più una pesante calzatura – ciò che appunto è. Il bastone da passeggio è brandito con scomposta esasperazione. Più volte punta il pubblico giungendo a pochi millimetri dai nasi degli spettatori. Ma più che bucare la quarta parete, fa l’effetto delle ariose invettive dei teatri dialettali.
Non pago, Stefano Sabelli si è dedicato alla scenografia. Il profilo del Pequod naviga su nastri di carta velina, con libri sparsi qua e là, tenuti aperti da masse debordanti di schiuma poliuretanica che non vorremmo vedere. Il tutto per suggerire che Achab naviga in un mare che è metafora di conoscenza. Ma lo si fa con la scontatezza della didascalia, con un espediente di stucchevole letteralità, buono per la recita di fine anno. La citata gamba di ferro è la metafora perfetta di un mancato incontro, di un’accidia intellettuale e corporea malcelata dietro spreco di citazioni e elementi scenografici. Vale la pena salvare la musica originale suonata in scena da Giuseppe Spedino Moffa, che alterna cornamusa, chitarra e armonica. I suoi brani sono l’unico moto che infonde tratti di profondità alla pièce, che tuttavia rimane incolpevolmente insufficiente.
Lo spettacolo titola “Moby Dick, la bestia dentro”. Ebbene qui la bestia è tutta fuori, sta da qualche parte perduta fra le fila della platea.
L’operazione di Davide Sacco lascia perplessi anche per ciò che riguarda la drammaturgia. Alle parole del testo originale, riproposte in patina ottocentista con diverse dita di polvere, si mescolano quelle di Shakespeare e di Molière. Senza una ricerca davvero approfondita del senso epico dell’opera. Fa quasi imbarazzo sentire frammenti inflazionati quali la “vita è fatta della stessa sostanza dei sogni”. Pezze buone per ogni collage teatrale, ma che qui sono davvero inessenziali ad una lettura dell’opera che si fatica persino a cogliere.
Si potrebbe infatti accettare, bypassando la storia del teatro contemporaneo, uno spettacolo di pura didascalia, che non riscriva il classico. Ma si richiederebbe in tal caso un ascolto stanislavskiano dei personaggi, un’accurata pulitura letteraria, la stesura di un filo rosso tra le pagine del capolavoro per adattare alla forma scenica un contenuto strabordante. Nulla di tutto ciò abbiamo potuto vedere. Lo spettacolo titola “Moby Dick, la bestia dentro”. Ebbene qui la bestia è tutta fuori, sta da qualche parte perduta fra le fila della platea. Probabilmente dove non siede nessuno. Pure così, paradossalmente, la si riesce a percepire. Achab invece dovrà rimandare la sua fine. Naviga ancora in alto mare e sarà richiamato sulla scena per rendersi degno della bestia.