Radicalizzazione estrema e cavallo pazzo di ogni selezione festivaliera che riesca a guadagnare una sua pellicola in cartellone, Carlos Reygadas è, insieme al suo protetto Amat Escalante (“Heli”; “La región salvaje”), il cineasta auteur messicano più importante in circolazione. Ovunque passi, Carlo Reygadas lascia sullo schermo opere a cui sta stretta la definizione di film, che aggiungono e regalano radicalizzazioni contenutistiche e formali. Sempre scomode e sempre indimenticabili.
Il miracolo si è ripetuto anche stavolta, con il primo film che il regista porta in Laguna (solitamente è un pupillo de La Croisette dove nel 2002 fu scoperto con “Japón”, e dove sono passati tutti i suoi lavori successivi, da “Battaglia nel cielo” a “Luz Silenciosa!” fino al precedente “Post Tenebras Lux” che nel 2012 vinse il premio per la miglior regia). È proprio a quest’ultimo titolo che “Nuestro Tiempo” è più vicino, allineato ad esso per forma, ma ancora migliore negli intenti.
Nella campagna messicana vive una famiglia che alleva tori da combattimento. Lei, Esther, gestisce il ranch, mentre suo marito Juan, poeta di fama mondiale, bada alla selezione degli animali più redditizi. I due hanno fondato il loro matrimonio sulla mancanza di vincoli, soprattutto sessuali. Si dicono tutto, cosa hanno fatto, con chi si sono visti, cosa hanno desiderato e se son rimasti appagati. L’unica condizione è non nascondersi niente. Quando Esther si infatua di un addestratore di cavalli di nome Phil e lo nasconde al marito, i due dovranno rivedere a fondo i loro presupposti coniugali.
Carlos Reygadas ci lascia un’opera senza compromessi, grezza eppure lirica, nuda ma fertile. E applausi che dovrebbero sfumare in un ruggito.
Già così ci troviamo di fronte a premesse tanto intriganti quanto pruriginose, ma tutto cresce d’interesse sapendo che Juan è proprio Carlos Reygadas ed Esther è la moglie del regista (Natalia López). A questo punto non guardiamo più una classica pellicola sulla crisi del matrimonio, ma un estremo atto di svestimento d’autore. Ogni confine tra finzione e autenticità viene ridefinito, l’intimo personale esibito a favore di camera mentre l’orizzonte del lecito si fa più lontano. Il regista, consapevole di non aver scontato nulla negli anni allo spettatore, passa dall’altro lato del discorso. Inevitabilmente il significato stesso di autobiografico esplode nelle mille sovrapposizioni tra dentro e fuori Carlos Reygadas.
Il regista tratta se stesso e la sua famiglia come avrebbe fatto con qualsiasi altro attore a lui estraneo. Non nega niente alla moglie, esponendone il corpo e ponendola in situazioni moralmente pericolose, spinte, sempre sull’orlo dello scandalosamente compiaciuto, senza mai oltrepassarlo. “Nuestro Tiempo” infatti non lambisce neppure gli spazi del morboso, perché stavolta a Carlos Reygadas sta a cuore un discorso più sottile, consapevole di doversi riscaldare un po’ perché questo non lasci indifferenti. Ed è impossibile rispedire al mittente la domanda matrice di quest’opera sublime: “quando amiamo qualcuno siamo più interessati alla sua felicità o alla nostra?”.
Amare è il tornaconto personale su cui non siamo disposti a negoziare. Possedere l’altro equivale a riempire un vuoto che è sempre e solo di chi lo prova.
“Nuestro Tiempo” prolunga quest’interrogativo per tre ore, faticose ma estasianti. Ripulisce le proprie immagini da progetti compositivi, abbandonando la macchina da presa dinanzi alla scena. Tutto ciò che si concede è di regolarne le focali, di variarne le lenti e di non ostacolarne mai il movimento che pare nascere dal mezzo stesso. La camera si trattiene dinanzi al paesaggio polveroso, ne contempla il già connaturato potenziale estetico per poi avvicinarsi voyeuristicamente alle stanze, ai vetri sudati, alle lenzuola scomposte. Si abbassa e si alza assecondando Juan che si aggrappa a un davanzale per spiare la moglie. Si chiude con lui in un armadio, guardando attraverso le doghe.
“Nuestro Tiempo” non lambisce gli spazi del morboso, perché stavolta a Carlos Reygadas sta a cuore un discorso più sottile.
Sono momenti che inseriscono ulteriori riflessioni sul bisogno di guardare qualcosa, qualcuno, una situazione. Un bisogno probabilmente più appagante – sicuramente meno compromettente – del vivere in prima persona. Nel mezzo, una giustapposizione di lettere digitate sullo schermo e parole off-screen, ad informarci sul botta e risposta (via mail o via posta) che avviene tra moglie, marito e amante. Il più delle volte l’immagine segue il suono. I dialoghi, le poesie scolastiche, le conversazioni in auto, tutto ciò che sentiamo commenta un’immagine che non gli appartiene, si attarda su un frame non abbinato. Attaccati al carrello di un aereo, sorvoliamo Città del Messico in una soggettiva vertiginosa, fino all’atterraggio in pista. Un volo che dura l’esatto tempo della missiva che Esther legge al marito per ricordargli le condizioni del loro rapporto.
La libertà è davvero il contrario del possesso? Una moglie che è disposta a sottostare alle regole del marito, lo fa per lui o anche un po’ per se stessa? Amare è il tornaconto personale su cui non siamo disposti a negoziare. Possedere l’altro equivale a riempire un vuoto che è sempre e solo di chi lo prova. Rovelli d’umana esclusività, complessati dalla crescita e dal matrimonio. Tre diversi gruppi anagrafici aprono il film (dei bambini che giocano nel fango, degli adolescenti e una coppia matura che si incontra in un bosco), ma alla fine è uno scontro violento, taurino ed etologico, a spartire le ragioni tra le parti. Carlos Reygadas ci lascia un’opera senza compromessi, grezza eppure lirica, nuda ma fertile. E applausi che dovrebbero sfumare in un ruggito.