Ogni membro del cast di “Quasi Niente” sceglie una storia, reale o fittizia, da cui far partire un flusso di pensiero volto a descrivere i disagi della modernità.
A priori non c’è niente di sbagliato nel far emergere una qualsiasi tesi sulla funzionalità dell’arte, sul senso della vita nella propria performance. Non pregiudica, almeno in linea di principio, la possibilità dello spettatore di farsi un’idea distinta da quella di Deflorian/Tagliarini. A minare totalmente la riuscita di “Quasi niente”, però, c’è il fantasma dell’installazione d’arte. Una tentazione a cui non sanno resistere e che probabilmente dovrebbero abbracciare fino in fondo. Almeno eviterebbero di appellarsi gratuitamente al pubblico, ammiccando e cercando pateticamente comprensione.
Proprio come in “Reality” Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, spalleggiati da Monica Piseddu, Francesca Cuttica e Benno Steinegger, si atteggiano ad architetti sul palcoscenico. Progettano, immaginano, abbozzano forme di vita per poi ragionarci su. Ognuno con i propri talenti. Francesca Cuttica, ad esempio, lo fa con la sua voce meravigliosa. Ogni membro del cast sceglie una storia, reale o fittizia, da cui far partire un flusso di pensiero volto a descrivere i disagi della modernità. Stavolta tocca a Giuliana di “Deserto rosso” di Michelangelo Antonioni.
Ogni opera d’arte è a sé stante. “Quasi niente” esclude dalla piena comprensione quella parte di pubblico che non abbia previamente visto il film di Michelangelo Antonioni.
Il film è solo uno spunto per la presunta indagine esistenziale condotta sotto gli occhi degli spettatori. Uno spunto che ha preso le sembianze di una mancanza di rispetto imperdonabile nei confronti del pubblico. Ogni opera d’arte è a sé stante. “Quasi niente” esclude dalla piena comprensione quella parte di pubblico che non abbia previamente visto il film di Michelangelo Antonioni. La quinta che divide il palco in due aree si colora di celeste e di verde, citando pedantemente la storia della cinematografia. Un riferimento che rischia di passare per mero accorgimento estetico. “Celeste e verde”, infatti, era l’altro titolo in ballo per “Deserto rosso”.
Ancora una volta è il deviante a voler essere oggetto di discussione, esemplificato e semplificato perché esasperato grazie al patologico. In “Quasi niente” ogni attore progetta lo spazio di vita di Giuliana secondo il proprio punto di vista. I gusti individuali di ogni attore disegnano un arredamento che dovrebbe stare per altro. La simbologia geometrica non è chiara. Come non sono chiare le linee disegnate sul palco dagli attori che non sanno né escludere né includere la platea nella loro riflessione. L’assenza di una linea narrativa si trasforma, così, in assenza di coerenza drammaturgica. È violento il passaggio da una presunta spontaneità espressiva alla somministrazione di estetismi gratuiti.
La drammaturgia di Deflorian/Tagliarini perde l’occasione di dare ai concetti la possibilità insostituibile di raggiungere la sensibilità del singolo spettatore.
La firma del duo Deflorian/Tagliarini resta inconfondibile. Anime vaganti sul palco, esprimentesi in una vocalizzazione monocorde e derubate di un corpo parlante. Dei silenzi interminabili, delle mancate sinergie corporee tra gli attori, resta solo la noia, perché non può esserci attesa dello scioglimento. Sarà perché è faticoso vivere sempre. È faticoso essere se stessi, essere riconosciuti nella propria specifica individualità e al tempo stesso sentirsi parte di qualcosa. Di questo inestinguibile e umano travaglio rimane solo la sterile elucubrazione del borghese annoiato.
Sarebbe una fortuna per i destinatari di un’opera teatrale assistere ad una vera e propria indagine su concetti esistenzialmente imponenti. La drammaturgia di Deflorian/Tagliarini perde l’occasione di dare a quei concetti la possibilità insostituibile di raggiungere la sensibilità del singolo spettatore. Il miracolo dell’estetica diventa esperienza reale se la precisione ossessiva per le parole è accompagnata da ciò che rende il teatro diverso dalla lettura silenziosa, solitaria. E in “Quasi niente” manca quasi tutto.