Con l’inizio della nuova settimana, si gira un’altra pagina della ricca programmazione del Roma Fringe Festival. È curioso intravedere una nota comune tra i diversissimi spettacoli che sono andati in scena sul Palco A del padiglione Pelanda del Mattatoio. Hanno esercitato il pubblico alla virtù dei forti, la calma, ognuno in maniera diversa. Per me è sempre stata «la virtù di chi non è coinvolto». Che certo non appartiene allo spettatore.
APNEA, LA PIÙ GIOVANE DELLE PARCHE
In fondo, questo è il ruolo della cornice in cui sono inserite le storie delle tre protagoniste. Versilia (Alice Corni) è un’odontoiatra piena di tatuaggi in continua lotta contro il marketing. Souvenir (Elisa Zanotto) è un accumulo di fobie con cui imparerà a fare pace. Narcisa (Maria Chiara Caneparo) vorrebbe scegliere ogni giorno chi essere per evitare che gli altri decidano per lei. Il mito di Cloto e il pesce, sincretizzando la mitologia greca con quella dell’oriente indiano, è un grumo di spunti didascalici che recupera il ruolo pedagogico della forma narrativa. La respirazione come momento meditativo e l’ascolto come momento di cura sono le vie attraverso cui le tre coinquiline si danno supporto. In fondo Versilia, Souvenir e Narcisa sanno cosa vogliono. Si tratta solo di avere il giusto supporto per realizzarlo.
Le figure di “Apnea, la più giovane delle Parche” sono apparentemente chiuse in un egoismo senza rimedio. Pur condividendosi nello stesso bagno, il luogo per eccellenza dell’intimità, sembrano sorde agli appelli e ai consigli dell’Altro. Ma è sbagliato, in questo caso, cedere alla smania di tirare le somme. Bisogna, piuttosto, lasciandosi guidare dalla ferma e pacata regia di Stefania Tagliaferri. Solo allora si riconosce negli intimi monologhi con cui Versilia, Souvenir e Narcisa si schiudono al pubblico, il dolore catartico dell’autoanalisi. Che non deve essere presa separatamente dal dialogo intimo attraverso cui le tre coinquiline scelgono quale nodo dei loro possibili sciogliere e tessere in quel miracolo che è l’autodeterminazione, il segreto della serenità.
Palinodie // compagnia teatrale
Palinodie // compagnia teatrale. 1.1K likes. Gruppo teatrale. Ci chiamiamo come quel componimento in cui si ritrattano precedenti affermazioni. Non è che siamo inaffidabili, vogliamo essere libere.
UROBORO
L’uroboro è un simbolo presente in tante culture. Indica l’infinito, in un modo in cui in Occidente non siamo abituati a pensare. Lungi dall’essere un’inesorabile realtà che ruota sempre uguale a se stessa, il divenire si incastra nell’evidenza del susseguirsi delle generazioni e nella ricezione sempre diversa di contenuti tradizionali. In Oriente il corpo acquisisce una valenza totalizzante rispetto alla cultura occidentale, che per secoli lo ha considerato come negazione di uno spirito superiore. Proprio per questa ragione non possiamo fare a meno di pensare due dove in Oriente c’è uno. Il kung fu, come gran parte delle discipline marziali, è un’arte totale, in cui autodifesa e ricerca di un personale equilibrio interiore fanno parte della medesima necessità. Anomalia Teatro si impegna a dare agli spettatori un assaggio di questo mondo.
È necessario armarsi di pazienza per entrare nel loro schema narrativo. Una favola esopica in cui una rana e un coniglio lottano per la sopravvivenza – in un agone continuo tra loro, da un lato, e contro gli elementi della natura, dall’altro – costituisce la cornice in cui si sviluppa la relazione tra maestro e allievo. Forse sbrogliare alcune dinamiche all’interno della cornice, rimanendo all’interno dello schema espressivo scelto da Anomalia Teatro, avrebbe reso “Uroboro” più trasparente. Per il resto, non si può far altro che fare i complimenti per il lavoro svolto sulla relazione da Simona Ceccobelli e Sebastian O’Hea Suarez. Un lavoro che riesce a sopperire con il corpo l’assenza di parole, in un universo che è totalmente diverso rispetto a quello in cui viviamo.
GLI ARROVESCIATI
Una volta inquadrato lo schema narrativo, però, il ritmo subisce una brusca frenata. Il dialetto ha sicuramente un suo peso nella scelta delle tempistiche di esecuzione. Accelerare avrebbe fatto perdere molto del senso della narrazione. Resta il fatto che la drammaturgia non è né calda e né coinvolgente. La storia narrata è avvincente per l’intreccio. Negli anni della Prima Repubblica, gli abitanti di un paesino sperduto tra le campagne siciliane decidono, persuasi da un timido eroe, a crearsi una rete di commercio inesistente, alle spalle dei signorotti locali. Dunque inizia il loro sciopero al contrario, al rovescio, che li porta a lavorare per crearsi un lavoro.
Tra bambini, paesani, arcipreti, baroni e braccianti, a “Gli arrovesciati” non mancano di certo di spunti drammaturgici, di picchi di comicità e di tragicità. L’attorialità sviluppata da Giorgio Cardinali nell’arco dei 50′ di performance, priva di qualsiasi presenza scenica, inibisce qualsivoglia intenzione di schieramento col protagonista, o chi per lui. Non si capisce che tipo di reazione cerchi dal pubblico. Si intuiscono i momenti in cui ci dovrebbe essere ilarità, ma purtroppo raccoglie solo freddezza. Il dramma de “Gli arrovesciati”, così come è portato in scena, risulta poco coinvolgente. È un vero peccato, soprattutto perché il testo ha tutte le carte in regola per appassionare gli spettatori a pagine della Storia d’Italia che altrimenti resterebbero sconosciute.
Come sproloquiavo in apertura, il denominatore comune di “Apnea, la più giovane delle Parche”, “Uroboro” e “Gli Arrovesciati” è la pazienza. Sono rappresentazioni a lento rilascio, in cui niente di cui già non si conosca la fine è prevedibile. È per questo che si rimane agganciati a quella maledettissima sedia e non si distoglie l’attenzione neanche per un secondo da ciò che accade sul palco del Roma Fringe Festival.