Una foto di scena de "L'amore dietro ogni cosa".
Una foto di scena de "L'amore dietro ogni cosa".

ROMA FRINGE FESTIVAL: “L’amore dietro ogni cosa”, “Attesa”, “La felicità”

Il 10 gennaio è stata una serata di prime al Roma Fringe Festival. Si va avanti con la programmazione di spettacoli, salutando la prima turnata di compagnie, attori e registi che hanno calcato i palchi del padiglione Pelanda del Mattatoio i giorni scorsi. Il Roma Fringe Festival ha il grande merito di spostare l’attenzione su produzioni teatrali che altrimenti rimarrebbero al margine. Per dirla con Robert Kempt, grazie a questa manifestazione, le realtà sotterranee non devono rimanere a casa per il loro sperimentalismo o l’assenza di fondi. Con questo spirito, accogliamo il debutto degli spettacoli sul Palco A.


L’AMORE DIETRO OGNI COSA

“L’amore dietro ogni cosa” si presenta come un testo corale. In fondo, corale è stato l’adattamento, curato da ben otto mani: di Barbara Bricca, Gabriele Planamente, e Guido Del Vento e Simone Di Matteo, rispettivamente regista e autore del romanzo da cui il copione è tratto. Sono due le linee temporali a snodarsi in una drammaturgia dai ritmi molto serrati. Il candore con cui sono avvolti i corpi degli attori mette in risalto i loro movimenti dal fondale nero del Palco A. O parla Simon (Alessandro Di Marco) o i suoi pensieri, che si accavallano l’uno sull’altro, anche fisicamente. Ogni pensiero desidera prevaricare, vincere, essere quello dominante, in ritornelli coreografici. E si sa, il singolo punto di vista sul mondo è legato a doppio filo al ricordo che lo ha generato. E i ricordi che vagano sul palco hanno un unico denominatore comune: Sam.

Mettere in fila le rappresentazioni della memoria come fossero lati diversi d’un medesimo carattere è una sfida difficile che, giocata sul palco, autori e attori vincono. “L’amore dietro ogni cosa”  sembra quello di “Cet Amour” di Jacques Prévert: sensuale, fiabesco, libertino, dolce, spietato. Poiché ogni attore ne materializza una sfumatura, la formula corale della scrittura è mantenuta viva. Il tutto è condito da (im)pertinenti citazioni cantate. Per questo le allusioni a volte valicano il limite dell’evocazione per impantanarsi nel grottesco. Tuttavia, la cornice di complessità psichica in cui sono inserite rende giustizia alle tensioni sim-patiche tra le figure che popolano la scena. “L’amore sopra ogni cosa” è un copione dalle grandi potenzialità. Peccato per l’eccessiva densità. Risulta difficile mettere davvero ordine tra i pezzi del puzzle che esibiscono al pubblico, salvo sottrarli un attimo prima della comprensione.


ATTESA

La devianza è la lente attraverso cui Dino Lopardo scrive “Attesa”. Una devianza che emerge a partire dall’atmosfera creata con la scenografia iniziale. Nella penombra si intravede un cubo con una parete trasparente, con su disegnata il bozzetto di una bambina. Gli farà presto compagnia un uomo col cappello e dalle grandi mani. Emma è l’autrice degli schizzi, vestita con un grembiule rosa, quello che si usa per la scuola dell’infanzia. La protagonista, almeno al suo stadio infantile, è tratteggiata con una dose di psicopatia che scurisce l’atmosfera. Solo il cielo sa quanto possono essere inquietanti i bambini speciali, quelli che hanno un vissuto doloroso. Elena Oliva e Alessio Esposito rendono attorialmente benissimo questo contrasto, tanto che Emma sembra una signorina rispetto al suo infantile cuginetto.

Al cambio di stadio dell’esistenza, anche la scenografia minimale si adegua, disegnando luoghi e momenti che accompagnano la crescita e la maturità di Emma. Lo sviluppo del suo carattere è pieno di rimandi a gesti presenti nella sua turbata infanzia. La metafora di “Attesa” è inscritta in un oggetto che accompagna simbolicamente Emma per tutta la durata della messinscena. Il mondo psichico che Dino Lopardo rappresenta teatralmente diventa progressivamente più equilibrato, perché entra in gioco una reazione, da un lato, e una forte consapevolezza degli effetti del trauma, dall’altro. Il copione di Dino Lopardo è un equilibrista sul filo dei moralismi facili. Riesce a svicolare l’ostacolo narrando con eleganza e delicatezza una storia, delegando al pubblico ogni velleità di giudizio. Snellendo un poco i botta e risposta su Tinder per la ricerca del match che cambia la vita, si toglierebbe l’unica traccia di opacità di “Attesa”.


LA FELICITÀ

Cosa sia “La felicità” è la domanda del secolo. Madè, con la regia di Nicola Alberto Orofino, prova a rispondere a questa domanda attraverso le vite di tre donne. Siamo a Catania nel 1968. Il boom economico degli anni ’60 fa sentire degli effetti benefici anche in Italia. Dove arriva il benessere, si è sollevati dai bisogni primari, e quindi ci si ritrova a pensare. Non è forse sufficiente avere una casa da tenere linda e ordinata come la vetrina di un museo? Non è forse sufficiente crescere con amore i figli nati da un’unione consacrata? E avere un marito che provvede a tutti gli accessori utili a svolgere con agilità il lavoro domestico? E avere la cabina prenotata per due mesi sulla spiaggia più in voga di Catania? Fortune insostituibili, bisogna solo fare in modo di lasciarle scappare via.

Per Madè “La felicità” non è solo dove la vuoi vedere. Se così fosse, Roberta Amato, Giorgia Boscarino e Luana Toscano sarebbero complici del cliché moralista contro la malafede di chi sa cosa vorrebbe fare ma non lo fa. Fortunatamente non è così. “La felicità” è nella possibilità di autodeterminazione. Per questo ogni donna da loro rappresentata ha in mente un antidoto molto diverso per la causa della propria isteria. Attraverso canzoni, gestualità e massime ripetute come fossero incantesimi per far sparire ogni traccia di pensiero malato, sono portati in scena fragili equilibri emotivi. Sogni infranti e desideri inappagati si fanno reali attraverso occhi lucidi e voci rotte dal pianto – o forse dallo sforzo di tenere alto il volume. Solo una di tre decide di rompere la catena di dominio, ma lo fa passando il testimone alla sua discendenza, maschile o femminile che sia. Rimarranno ancorate alla felicità.


Victor Hugo:

Il teatro non è il paese della realtà […]. Ma è il paese del vero: ci sono cuori umani dietro le quinte, cuori umani nella sala, cuori umani sul palco.

Quando il teatro esprime contenuti significativi per l’esistenza, è una delle esperienze più gratificanti, che fanno nutrire ancora un briciolo di speranza nell’Uomo. Rappresentazione ed elaborazione di sentimenti, individuazione e denuncia di urgenti questioni sociali. Questo è il filo rosso per il quale, finora, il pubblico ha premiato con calore gli spettacoli del Roma Fringe Festival.

Exit mobile version