Cristina Aubry in "Chiuso per solitudine".
Cristina Aubry in "Chiuso per solitudine".

ROMA FRINGE FESTIVAL: “Radici”, “Chiuso per solitudine”, “Bianco d’inchiostro”

Anche la seconda settimana del Roma Fringe Festival si è chiusa, e non senza un velo di malinconia. Emozione spazzata via dalla sorpresa.
Si sa, l’abitudine ci porta a trarre pregiudizi piuttosto che a formulare ipotesi sensate. Lo sapeva bene Henri Bergson, che imputava il motivo principale della risata a reazione a un comportamento meccanico dell’essere umano. Una strategia di comportamento che spesso lo fa fallire miseramente di fronte all’imprevisto.
Quindi non è vero che sul Palco B si dà spazio solo a monologhi!


RADICI

La diversità fa paura. Per questo l’intento primario di una qualsiasi legge è perlopiù la normalizzazione di un’atto, l’altra faccia dell’omologazione. Siamo piuttosto vittime di un’illusione che amplifica il ventaglio di possibilità dato dalla statuizione di legalità, mentre invece circoscrive limiti. Oggi più che mai, in una temperie politica e culturale in cui una certa critica spregiudicata agli effetti omologanti della globalizzazione rischia di stringere i confini della persona tenendo fuori lo Straniero, è urgente tenere viva la memoria delle stragi sottaciute. “Radici” dà voce a quelle vessate minoranze su cui la Storia ha fatto calare un vergognoso silenzio. Nessun dominato, nessun vinto dovrebbe mai essere escluso dalla memoria con l’unica motivazione dell’irrilevanza numerica. O peggio ancora, per giustificazione ideologica. Se così fosse, ci stupiremmo di quanto l’uomo sia il primo nemico di se stesso.

Da un’idea di Macondo, sul palco B del padiglione Pelanda per il Roma Fringe Festival, Antonio De Nitto è un omosessuale, uno zingaro e un malato di mente. Il ritmo della narrazione è intenso e coinvolgente. Antonio De Nitto adotta tanti stili interpretativi. Tranquillità, rassegnazione, paura, malinconia, determinazione arrivano al pubblico con forza dirompente. Antonio De Nitto sa essere un animale braccato, un timido amante, e un predatore feroce al contempo. L’utilizzo intelligente delle luci aiuta considerevolmente l’alternarsi di persone che circondano i tre protagonisti, concentrati nel corpo di un unico performer. L’unica opacità nella rappresentazione di “Radici” sta nel passaggio meno fluido tra la prima e la seconda identità rappresentata. Per il resto, è un testo che ammette ogni reazione tranne l’indifferenza, quell’anestesia dei sentimenti che ci avvicina al mondo degli oggetti, allontanandoci persino da quello degli animali.


CHIUSO PER SOLITUDINE

“Chiuso per solitudine” è un testo di Orlando Placato, messo in scena da una frizzante e cangiante Cristina Aubry e Oreste D’Ippolito, per la regia di Anna Maria Loliva. Un susseguirsi di monologhi che vedono alternarsi sul palco i due attori. I personaggi portati in scena sono come diapositive. Inizialmente proiettate una per una, danno un focus caleideoscopico sullo scottante tema della solitudine, uno degli effetti collaterali dell’individualismo monadico che affligge la contemporaneità. La solitudine è sorella dell’incomprensione, figlie dello scollamento tra l’immagine residua che il soggetto ha del sé e della percezione che di questo hanno gli altri. Finché non si giunge al difficile argomento della devianza patologica, che non trova posto neanche ai margini della società.

Anna Maria Loliva dona un’identità comica alle prime sette diapositive, lasciando in bocca un retrogusto amaro. Le ultime tre sono rappresentate con un piglio più serio, che trova corrispondenza nella diversità dei drammi che prendono corpo sul palco. Al di là dell’ossessione per il riconoscimento, c’è un altro filo conduttore che dovrebbe rendere le diapositive di cui è composto “Chiuso per solitudine” un unico film piuttosto che un collage disorganico. Un filo rosso che è piuttosto nero, come la cronaca da cui il testo di Orlando Placato vorrebbe trarre ispirazione. Si può imputare la difficoltà riscontrata nel tirare il filo che collega le varie storie ai limiti attoriali di chi si è caricato dell’onere di chiudere la pièce. Oppure al limite temporale di 50′ stabilito dal Fringe Festival.


BIANCO D’INCHIOSTRO

Se c’è un aggettivo che risponde immediatamente alla Russia, è la lentezza. Una caratteristica che pervade il variare delle stagioni, tutte troppo simili l’una con l’altra. Una caratteristica che contraddistingue gli spiriti dei suoi abitanti. Persino Konstantin Dmitrič Lèvin, personaggio cruciale di “Anna Karenina” di Lev Tolstoj, lamenta la lentezza spirituale dei contadini che non riuscivano a stare al passo con i suoi tentativi di rivoluzionare i meccanismi di produzione affinché tutti potessero trarne beneficio. E non può che essere lento il ritmo della rappresentazione di “Bianco d’inchiostro”, adattamento teatrale Giulio Bellotto e Alice Guarente che cerca di approfondire un capitolo intriso di sangue della dittatura staliniana. Un capitolo che, fortunatamente, non è rimasto inedito.

Gli attori cercano di sopperire alla genetica lentezza della letteratura moscovita con con variazioni che mostrano un discreto trasformismo attoriale. Attraversano molte sfumature narrative: il grottesco, il drammatico, l’ironico. La potenza di “Bianco d’inchiostro” raggiunge il pubblico carsicamente, a poco a poco. Giulio Bellotto e Alice Guarente la prendono alla larga, aiutando a contestualizzare “Requiem”, il lungo saluto scritto da una donna. Anna Achmatova è il nome dell’autrice, moglie e madre che le purghe staliniane hanno reso sola al mondo. Ci preparano al lungo monologo, sostenuto da Alice Guarente, con una giusta introduzione sulla storia e sull’evoluzione della dottrina comunista. Noi è la parola chiave del centralismo democratico della Russia rivoluzionaria, un Noi che deve essere costruito a ogni costo.

Il terrorismo del sospetto risulta smorzato dalle maschere utilizzate per enuclearlo. L’effetto grottesco, però, riesce anche a far rabbrividire, come anche le risate amare che seguono la freddura che chiude la rappresentazione. «Perché in Russia le lumache vanno più veloci dei cavalli?» «Perché hanno imparato a strisciare». Ed è strisciando che l’arte è sopravvissuta anche sotto il tallone di ferro del comunismo reale, per emergere con la sua implosione. D’altronde, come sottolinea laconicamente Anna Achmatova, nessuno pensa al dolore delle donne. Neanche Maria ai piedi della croce ha avuto il diritto di piangere per la morte di suo figlio.

Un copione denso e impegnativo quello di “Bianco d’inchiostro”. Coraggiosa la scelta di non toccare il testo di “Requiem”, per riprodurlo nella sua originalità. L’espressività di Alice Guarente durante il monologo ha avuto come solide stampelle una colonna sonora di tutto rispetto e un utilizzo piuttosto cinematografico delle luci. Il lavoro attoriale si è contraddistinto per la sobrietà. Dove i toni epici del “Requiem” di sottofondo rischiavano di scivolare rovinosamente verso il patetico, Alice Guarente e Giulio Bellotto scelgono il contegno.


Le opere, come nei pozzi artesiani, salgono tanto più alte quanto più a fondo la sofferenza ha scavato il cuore.

Marcel Proust

Dunque l’arte dovrebbe essere una dominatrice, che si nutre delle sofferenze dei suoi creatori ed estimatori? Certo è vero che il dolore generato da esperienze vede nell’arte una potente elaborazione del vissuto. Ma anche l’empatia generata dalla condivisione della sofferenza porta a una rappresentazione artistica. L’ampio spettro delle emozioni umane è il denominatore comune delle pièce del Roma Fringe Festival.

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