Anche la seconda settimana del Roma Fringe Festival si è chiusa, e non senza un velo di malinconia. Emozione spazzata via dalla sorpresa.
Si sa, l’abitudine ci porta a trarre pregiudizi piuttosto che a formulare ipotesi sensate. Lo sapeva bene Henri Bergson, che imputava il motivo principale della risata a reazione a un comportamento meccanico dell’essere umano. Una strategia di comportamento che spesso lo fa fallire miseramente di fronte all’imprevisto.
Quindi non è vero che sul Palco B si dà spazio solo a monologhi!
RADICI
Da un’idea di Macondo, sul palco B del padiglione Pelanda per il Roma Fringe Festival, Antonio De Nitto è un omosessuale, uno zingaro e un malato di mente. Il ritmo della narrazione è intenso e coinvolgente. Antonio De Nitto adotta tanti stili interpretativi. Tranquillità, rassegnazione, paura, malinconia, determinazione arrivano al pubblico con forza dirompente. Antonio De Nitto sa essere un animale braccato, un timido amante, e un predatore feroce al contempo. L’utilizzo intelligente delle luci aiuta considerevolmente l’alternarsi di persone che circondano i tre protagonisti, concentrati nel corpo di un unico performer. L’unica opacità nella rappresentazione di “Radici” sta nel passaggio meno fluido tra la prima e la seconda identità rappresentata. Per il resto, è un testo che ammette ogni reazione tranne l’indifferenza, quell’anestesia dei sentimenti che ci avvicina al mondo degli oggetti, allontanandoci persino da quello degli animali.
CHIUSO PER SOLITUDINE
Anna Maria Loliva dona un’identità comica alle prime sette diapositive, lasciando in bocca un retrogusto amaro. Le ultime tre sono rappresentate con un piglio più serio, che trova corrispondenza nella diversità dei drammi che prendono corpo sul palco. Al di là dell’ossessione per il riconoscimento, c’è un altro filo conduttore che dovrebbe rendere le diapositive di cui è composto “Chiuso per solitudine” un unico film piuttosto che un collage disorganico. Un filo rosso che è piuttosto nero, come la cronaca da cui il testo di Orlando Placato vorrebbe trarre ispirazione. Si può imputare la difficoltà riscontrata nel tirare il filo che collega le varie storie ai limiti attoriali di chi si è caricato dell’onere di chiudere la pièce. Oppure al limite temporale di 50′ stabilito dal Fringe Festival.
BIANCO D’INCHIOSTRO
Gli attori cercano di sopperire alla genetica lentezza della letteratura moscovita con con variazioni che mostrano un discreto trasformismo attoriale. Attraversano molte sfumature narrative: il grottesco, il drammatico, l’ironico. La potenza di “Bianco d’inchiostro” raggiunge il pubblico carsicamente, a poco a poco. Giulio Bellotto e Alice Guarente la prendono alla larga, aiutando a contestualizzare “Requiem”, il lungo saluto scritto da una donna. Anna Achmatova è il nome dell’autrice, moglie e madre che le purghe staliniane hanno reso sola al mondo. Ci preparano al lungo monologo, sostenuto da Alice Guarente, con una giusta introduzione sulla storia e sull’evoluzione della dottrina comunista. Noi è la parola chiave del centralismo democratico della Russia rivoluzionaria, un Noi che deve essere costruito a ogni costo.
Il terrorismo del sospetto risulta smorzato dalle maschere utilizzate per enuclearlo. L’effetto grottesco, però, riesce anche a far rabbrividire, come anche le risate amare che seguono la freddura che chiude la rappresentazione. «Perché in Russia le lumache vanno più veloci dei cavalli?» «Perché hanno imparato a strisciare». Ed è strisciando che l’arte è sopravvissuta anche sotto il tallone di ferro del comunismo reale, per emergere con la sua implosione. D’altronde, come sottolinea laconicamente Anna Achmatova, nessuno pensa al dolore delle donne. Neanche Maria ai piedi della croce ha avuto il diritto di piangere per la morte di suo figlio.
Un copione denso e impegnativo quello di “Bianco d’inchiostro”. Coraggiosa la scelta di non toccare il testo di “Requiem”, per riprodurlo nella sua originalità. L’espressività di Alice Guarente durante il monologo ha avuto come solide stampelle una colonna sonora di tutto rispetto e un utilizzo piuttosto cinematografico delle luci. Il lavoro attoriale si è contraddistinto per la sobrietà. Dove i toni epici del “Requiem” di sottofondo rischiavano di scivolare rovinosamente verso il patetico, Alice Guarente e Giulio Bellotto scelgono il contegno.
Le opere, come nei pozzi artesiani, salgono tanto più alte quanto più a fondo la sofferenza ha scavato il cuore.
Marcel Proust
Dunque l’arte dovrebbe essere una dominatrice, che si nutre delle sofferenze dei suoi creatori ed estimatori? Certo è vero che il dolore generato da esperienze vede nell’arte una potente elaborazione del vissuto. Ma anche l’empatia generata dalla condivisione della sofferenza porta a una rappresentazione artistica. L’ampio spettro delle emozioni umane è il denominatore comune delle pièce del Roma Fringe Festival.