Gli Swingrowers e Davide Shorty nel video di "Healing Dance".
Gli Swingrowers e Davide Shorty nel video di "Healing Dance".

SWINGROWERS: “Il linguaggio ancestrale della musica ci fa riscoprire umani”

Un caloroso benvenuto agli Swingrowers sulle pagine di Music.it! Ciao ragazzi! Scaldiamoci prima di aprire le danze. Raccontateci un aneddoto che avete vissuto insieme, per il quale state ancora ridendo.

LOREDANA: Questa la racconto io, che porto ancora il peso della figura di m***a! Il primo tour negli Stati Uniti, Montreal, sold out! Bel mezzo del concerto, folla in delirio, presento una canzone, mi giro e vedo che i miei colleghi mi avevano lasciata sola sul palco. Cerco Giulio, il nostro manager per capire che cosa stesse succedendo, e mi dice che i ragazzi erano andati a fare la pipì. Mi spiega da lontano e a gesti, che se non fossero andati via sarebbe successo il peggio, quindi meglio cosi. Ma mi ritrovo per non so quanti lunghissimi minuti a cercare di intrattenere il pubblico con uno scat improvvisato. Ci sono stati lunghi applausi, per fortuna. Ma non è finita. Mentre Alessio e Roberto tornano correndo verso il palco, Roberto fa un volo – tutt’altro che pindarico – sul palco proprio davanti a tutti! Un vero disastro!

In pieno revival dello swing ascoltabile anche in “Healing dance”, c’è una buona domanda da parte del pubblico, almeno quello danzereccio. Ma a me interessa sapere quale sia la vostra storia, e da quali mondi musicali venite. 

La cosa che più accomuna i nostri percorsi è il fatto di essere tutti per lo più autodidatti. Sentiamo da tutta una vita la passione per il jazz e le sue influenze, ma ognuno di noi ha avuto percorsi musicali e di ascolto diversi. È proprio questa eterogeneità che dà vita a un sound eclettico, in cui ogni canzone è completamente diversa dall’altra, nonostante la nostra impronta resti riconoscibile.  Siamo in quattro: Loredana Grimaudo, Roberto Costa, Alessio Costagliola e Ciro Pusateri, rispettivamente voce, dj/producer, chitarrista e sassofonista. E poi c’è Giulio Castronovo, nostro manager da sempre.

Più in particolare, invece, come nascono gli Swingrowers?

Gli Swingrowers nascono nel lontano 2010, Loredana coinvolse Roberto nell’idea di  portare avanti un progetto electroswing. Così hanno iniziato a succedersi incontri, prove, e le prime canzoni. Il duo è durato poco, poco più di un anno nel quale siamo cresciuti molto velocemente. Nonostante avessimo pubblicato il primo album e cominciato i tour in tutta Europa, sentivamo il bisogno di dare maggiore sostegno al live. La band come la conoscete adesso è stabile ormai da molti anni. Siamo un team collaudato ma che nel corso degli anni ha dovuto imparare a confrontarsi con un metodo di lavoro in continua evoluzione. Nelle produzioni creiamo tutto insieme, dalla prima all’ultima nota. Non esiste fraseggio, parola, idea che non passi al vaglio dell’opinione di tutti. Siamo abbastanza democratici ed abbiamo imparato il valore del compromesso, che nel nostro caso significa rinuncia per il bene comune.

Nel vostro nome, Swingrowers, c’è un indizio del vostro passato e sul vostro futuro?

Esatto! C’è il passato ed il futuro, ma anche il presente! E sta tutto racchiuso nella seconda parte del nostro nome: growers, che significa agricoltori. Nel concetto di passato c’è il richiamo delle origini, una sorta di promemoria, per non dimenticare mai da dove veniamo. Un tributo alla tradizione contadina della nostra terra, la Sicilia. Quella stessa parola contiene il concetto di futuro nell’accezione di crescita ed evoluzione. Si dice che chi semina raccoglie, e noi continuiamo a lavorare senza sosta, attendendo con pazienza che i frutti siano maturi per essere raccolti. Giorno dopo giorno, stagione dopo stagione.

“Healing dance” non è solo un gioco, ma è portatrice di un messaggio importante. Cosa vogliono dire gli Swingrowers a chi li ascolta?

Porta con sé un messaggio di speranza. Un invito ad andare oltre l’odio, l’indifferenza dei potenti, il grigiore di vite sospese nel nulla. E trovare del tempo di qualità per se stessi. Fermarsi in mezzo al caos è diventata una sfida quotidiana. E la danza come una cura viene in soccorso come rito catartico, per rompere gli schemi di una vita passiva. La danza unisce, sin dall’antichità, oltre le ideologie, oltre le religioni. Ma il cambiamento va scelto e perseguito con coraggio.

“Healing dance”, la danza come cura. Sembrerebbe tirare il freno per tornare a un livello antecedente la parola. In che modo può essere positivo riscoprire un’umanità unita a prescindere dalle relazioni verbali?

In realtà se ci pensiamo bene siamo già arrivati a un livello che va oltre la parola. Nella nostra canzone “Selfie Face”, per esempio, parliamo proprio di questo: di come stiamo perdendo il contatto con la parola e con la comunicazione verbale. Si parla poco, ci si trattiene molto dal vivo, spesso ci si rifugia dietro alla sicurezza di uno schermo per dire ciò che faccia a faccia non diremmo mai. Questo inevitabilmente divide. Per questo insieme a Davide Shorty abbiamo scritto “Healing Dance”. Che sì, è un passo indietro verso la riscoperta di un linguaggio ancestrale, cioè musica e danza, che unisce oltre le differenze. Ma allo stesso tempo è un passo avanti verso l’evoluzione del ritrovarsi umani attraverso gesti che appartengono all’Uomo da sempre, al di là di qualsiasi progresso tecnologico.

Come è stato collaborare con Davide Shorty? Episodi indimenticabili da confessarci in sala prove?

Lavorare con Davide Shorty è stato molto semplice. Arriva dritto al punto e ha una scrittura molto istintiva. L’unico suo difetto è che mangia troppo miele! A parte gli scherzi, è arrivato in sala d’incisione con un terribile mal di gola e per poter cantare ha letteralmente svuotato un barattolo di miele, sciolto in una tazza di camomilla calda. Evidentemente funziona, perché il risultato è stato notevole.

Tre album all’attivo e un quarto in arrivo. E non sono mancati i riconoscimenti internazionali. Qual è stato il momento più emozionante della brillante carriera dei Swingrowers?

Sicuramente i tour internazionali, in particolar modo i due sold out al Blue Note Jazz Club di Tokyo. È uno dei templi sacri del jazz nel mondo e vedere così tanta gente in piedi, esultare per noi, firmare centinaia di autografi , quella è stata una soddisfazione enorme. Giocavamo fuori casa e abbiamo vinto.

Domanda ostica. Valutando lo stato della produzione musicale in Italia, se aveste una bacchetta magica, cosa cambiereste?

Come dicevamo prima, siamo abbastanza democratici e pensiamo che ognuno possa e debba esprimersi e produrre ciò che vuole. Una riflessione però ci sta tutta. Riesce la musica a essere ancora arte? Tutta la musica è arte? Anche quella studiata a tavolino per stare in cima alle classifiche? Ci meritiamo tutti di essere chiamati artisti o siamo solo commercianti di melodie? Se avessimo una bacchetta magica vorremmo trovare le risposte a queste domande.

È arrivato il momento dei saluti. Le ultime righe sono per voi. Libertà di espressione massima.

Grazie a Music.it per averci dato la possibilità di raccontarci tra queste righe. Grazie per le domande poco scontate. Si dice che le domande siano più importanti delle risposte. In questo caso siamo stati guidati al racconto inedito, e ci è piaciuto molto!

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