Roberto Andò esplora un fianco del genere giallo più rischioso, ambendo a una struttura a scatole multiple, affiancando racconto filmico e leggenda italiana.
Valeria (Micaela Ramazzotti), giovane segretaria di un produttore cinematografico, vive appartata, sullo stesso piano della madre (Laura Morante). Scrive in incognito per uno sceneggiatore di successo, Alessandro Pes (Alessandro Gassmann). Un giorno viene avvicinata da un misterioso poliziotto in pensione (Renato Carpentieri) che le vuole raccontare una storia criminale. Valeria è guardinga, ma lo ascolta affascinata. Quando torna a casa usa quello che ha udito per scrivere un soggetto: sarà la prossima sceneggiatura di Pes, di cui i produttori attendono da tempo la consegna. Il soggetto piace molto, al punto che a finanziare il film entrano anche dei gruppi stranieri. Per dirigerlo viene ingaggiato un regista americano anziano ma di culto. Tuttavia quel soggetto si rivela pericoloso: la “Storia senza nome” racconta, infatti, il misterioso furto di un celebre quadro di Caravaggio, “La Natività”, avvenuto per mano della Mafia. Valeria si troverà ad assumere un ruolo per lei insolito.
Lo stile di “Una storia senza nome” non è ambizioso quanto la scrittura. Questa scelta di lavorare in leggerezza, almeno sul versante formale, è sicuramente da apprezzare.
Questa volta Roberto Andò esplora un fianco del genere giallo più rischioso, ambendo a una struttura a scatole multiple, affiancando racconto filmico e leggenda italiana. È un azzardo che già in partenza avrebbe dovuto contare su una sceneggiatura di ferro. E su uno script che, pur portando avanti linee parallele e concedendosi a più riprese intrecci e incroci di trame e sottotrame, alla fine fosse capace di chiarificarsi senza lasciare dubbi. Questo non accade nella frantumazione prodotta percorrendo troppe strade incidentali, ognuna delle quali affianca due corsie discorsive entrambe di gran peso.
Da una parte abbiamo il cinema e la sua natura finzionale, avanzante questioni affascinanti sulla fiducia che lo spettatore è disposto ad accordare a ciò che gli viene mostrato. Dall’altro la miscela storio-artistica relativa a un furto d’arte tuttora irrisolto e che in cinquant’anni ha dato adito alle soluzioni più fantasiose. Che fine ha fatto la tela del Caravaggio? È stata data in pasto ai maiali o viene usata come scendiletto da un boss mafioso? C’è pure chi dice che sia stata usata come mezzo di scambio nella trattativa Stato-Mafia. Epiloghi multipli, tutti veri proprio perché tutti non provati.
Alessandro Gassmann, Renato Carpentieri e Laura Morante paiono fuori forma. Citano il proprio talento da lontano, portando a casa il ruolo a suon di didascalismi vecchia scuola.
Servendosi di questo sfondo misterioso nel cuore della storia artistica italiana, “Una storia senza nome” ci interroga e si interroga sullo statuto finzionale del racconto cinematografico. Dei tanti esiti possibili del furto della “Natività” siamo liberi di credere a quello che più ci affascina. Siamo altrettanto liberi di ritenere la storia raccontata autentica. Il regista costruisce un puzzle imperfetto, bulimico di spunti e di tonalità diversissime. Si concede aperture sentimentali e ironiche alla confezione real-mistery, già di per sé bastante. Il film diventa un moltiplicatore fuori controllo di sviluppi e situazioni, tanto da affaticare a un certo punto la comprensione.
Servendosi di uno sfondo misterioso nel cuore della storia artistica italiana, “Una storia senza nome” ci interroga e si interroga sullo statuto finzionale del racconto cinematografico.
Lo stile non è ambizioso tanto quanto la scrittura, e questa scelta di lavorare in leggerezza almeno sul versante formale è sicuramente da apprezzare. Analoga levità nella recitazione degli attori, tutti sotto tono. Se da Micaela Ramazzotti non ci si aspetta credibilità interpretativa, gli stessi Alessandro Gassmann, Renato Carpentieri e Laura Morante paiono fuori forma. Citano il proprio talento da lontano, portando a casa il ruolo a suon di didascalismi vecchia scuola.
La soluzione finale, originale e risolutiva, rimescolerà i pezzi che illusoriamente credevamo al loro posto. L’unico alibi che possiamo concedere a questo gioco di specchi e di ribaltamenti a cui abbiamo assistito, è che il film di Roberto Andò, con la sua macchinosità, puntasse soltanto a ribadire la propria scivolosità. Impossibile racchiudere una storia sotto un nome certo, proprio come impossibile è asserire che quello che stiamo vedendo sia (o non sia) soltanto cinema. Ciò che è dubbio rimane aperto, vivo e fecondo. La verità è un punto, è conclusa, è una storia che ha esaurito il proprio potenziale.