Trattandosi di un gioco serissimo, agonistico per la qualità della produzione, gli attori scorrono su un felpatino verde da biliardo, un campo rettangolare steso al centro d’una sala dell’India ove ci sediamo tutt’intorno, spalle al muro. L’ambiente laboratoriale denuncia e puntualizza l’aspetto processuale, aperto dello spettacolo. Ad un capo e all’altro del green due oggetti emblematici e belli, una scultura di ruote da bicicletta ed un armadio di legno. Sulla scena gli attori ci sono già, sembrano aspettarci guardinghi e sardonici, come chi sta per attivare un meccanismo ad innesco rapido e letale. Un meccanismo che si compone di nulla più e nulla meno che delle suggestioni contenute nel testo pirandelliano.
“Il giuoco delle parti” porta in scena un meccanismo che si compone di nulla più e nulla meno che delle suggestioni contenute nel testo pirandelliano.
L’opera diretta da Alessio Bergamo è infatti altamente fedele al dispositivo originale ma, al contempo, lo riscrive in una lingua perfettamente attuale. Pregio ammirabile in epoca di riscritture che poco o nulla hanno a che vedere con le fonti ispiratrici, a prescindere dalla qualità dei risultati. Risentiamo la preziosità della drammaturgia originale. Molta parte del testo de “Il giuoco delle parti” è riproposta letteralmente, con un’operazione di distanziamento e attualizzazione discreta e sostanziosa. Lingua e parola si spaccano e allontanano sulle schiene ansimanti degli attori. Sul loro stare in scena iconoclastico rispetto a l’immagine dell’attore come performer del gesto efficace. Al contrario, parole e movimenti assumono spesso un aspetto ricercatamente goffo e stentoreo.
Giacomo Veronesi costruisce il personaggio di Leone intorno a ciò che agli attori è sempre chiesto di non fare: dondolare sul palco. Leone dondola magnificamente, come un pendolo che oscilla irreprensibile. Come un fuso che tesse la tela del maleficio con algebrico ritmo e che ipnotizza grazie alla sua genialità mentale fattasi danza. Tradisce l’immagine consueta del suo personaggio come freddo esecutore di un logos imborghesito e deumanizzato. Costruisce per due ore buone una simpatia che potenzia enormemente il rovesciamento finale. Riesce persino a farci scordare la trama, regalandoci così un finale a sorpresa, ma senza sorpresa. Tutto va infatti come deve andare.
Molta parte del testo de “Il giuoco delle parti” è riproposta letteralmente, con un’operazione di attualizzazione discreta e sostanziosa.
Sandro Fulvio Pivotti è la perfetta controparte. Coglie coerentemente la natura perdente, che si compie nell’elemento sacrificale di Guido Venanzi. Gioca sempre ad abbassare il volume scenico, cogliendo sapientemente ogni moto dinamico del testo. Arianna Pozzoli sviluppa il lirismo mitomane di Silia. Ne fa una figura della pazzia e della grazia, cancellando senza lasciare rimpianti la vena meschina del prototipo pirandelliano. Matteo Vitanza incorpora diversi ruoli con virtuosismi autoironici. Fa da collante fra i tre perni psicologici caricandosi le parti minori, per così dire tecniche. Tutti usano una lingua fatta di sospensioni e accenti così quotidiani e riconoscibili, che facciamo nostra ogni logorrea, ogni paura, ogni battuta. Sentiamo in gioco anche la nostra parte.
Nel complesso l’amalgama attoriale è riuscitissima. Ogni virtù individuale si sviluppa a un grado di indipendenza che permette di visualizzare dinamiche sceniche nuove, prodotte nell’atto stesso dello spettacolo che si offre come unicum. L’approccio registico non limita o deforma la ricerca personale degli attori. Piuttosto ne sostiene il relazionarsi tramite un impianto concettuale chiaro: il de-montaggio del meccanismo pirandelliano. Se la trama è simile ad un progetto di vendetta ordito a quattro mani dai coniugi Gala, ogni step è parte di un disegno. L’opera di Alessio Bergamo sta al testo come un raffinato diagramma, simbolizzato dall’albero di ruote che girano l’una nell’altra inevitabilmente.
Pirandello criticava il nichilismo della società borghese. A 100 anni dalla prima scrittura de “Il giuoco delle parti”, vale ancora la pena pensarci.
L’altro simbolo dell’essenza di questo logos è quell’uovo che spesso appare in scena come nel testo. Emblema della perfezione nella tradizione filosofica e iconologica occidentale, la sua superficie liscia risplende perfetta come il pensiero di Leone. Scagliato o spezzato fra mani, rivela il suo esser nulla, che è cuore senza nome, o nome senza cuore, della vita di Leone. Ecco perché riportare in scena il classico, ecco perché riportarlo così. Pirandello criticava il nichilismo della società borghese che abbracciava la radicalità del pensiero calcolatore, intrinsecamente inumano. A 100 anni dalla prima scrittura de “Il giuoco delle parti”, vale ancora la pena pensarci.