Mektoub significa Destino, e Destino significa amare la vita, quella trascinata nel tempo e rimescolata dal caso.
Stavolta, questo prolungare la visione sembra radicalizzarsi del tutto, incurante non solo delle parole “inizio” e “fine”, ma pretendendo altro tempo nel luogo mostrato, altri indugi sui corpi e sulle bocche che masticano cibo. Kechiche non ha fretta di dirci tutto, a tal punto che ha diviso il suo progetto in tre capitoli. Questo “Mektoub, My Love: Canto Uno” è la prima parte di una programmata trilogia, che non si sa né come né quando verrà portata a termine. Ben note sono le difficoltà produttive incontrate dopo “La vita di Adele” (2013), seguite o causate dalle accuse di mobbing delle due interpreti protagonisti. L’arte di Kechiche, come quella di qualsiasi autore autentico, non si ferma davanti al denaro, e perciò il regista franco-tunisino non ci ha pensato due volte prima di vendere la Palma d’oro e autofinanziarsi. E a vedere il risultato di questo sacrificio, dovremmo solo ringraziarlo.
L’estremismo narrativo parte innanzitutto dalla trama, ridotta a una traccia esperienziale. Amin ha lasciato gli studi di medicina per scrivere il suo film. Tornato a casa sul Mediterraneo, trascorre l’estate tra gli amici di sempre e nuove conoscenze. Incontri, fotografie rubate, pasti consumati in uno chalet o in spiaggia, bagni in acqua a cavalcioni; momenti da divorare prima che sfuggano, da vivere prima che la regia dica “stop”. È il 1994, un anno ripreso, musicato e vissuto in un arco ancora più ristretto e significativo, quello dell’estate. Poche settimane che iniziano in questo primo capitolo e che non sappiamo quanto dureranno (e non ci importa). Ma è proprio questa l’essenza miracolosa del film: la pellicola riesce ad evocare la stessa spensieratezza di quel poco che viene narrato. Tra un bagno e una cena l’estate rallenta i progetti, rimanda le preoccupazioni, programma solo le singole giornate.
I protagonisti di Kechiche sono tutti meravigliosamente ventenni valorizzati nei corpi, nei capelli increspati, nelle labbra che sanno di riso e a cui si aggiungono riprese ripetute su glutei femminili che, durante la conferenza stampa a Venezia, hanno procurato al regista l’ennesima accusa sessista. Esseri umani vibranti di sole a cui non interessa quello che accadrà domani ma quello che si può vivere oggi. Allo stesso modo allo spettatore finisce per non interessare chi bacerà chi, se ci saranno unioni o tradimenti, ma si ritrova rapito solo da quello che sta vedendo.
La vita viene afferrata a mani grosse, come pugni che affondano sul fondale del mare e cercano di trattenere più sabbia possibile. Mentre l’acqua scivola via dalle dita lasciando solo pochi granelli, ci si rende conto che neanche un minuto potesse essere tolto al film, anzi ci si ritrova a desiderare altre tre ore in compagnia di Amin e dei suoi amici. Godiamo di cotanta bellezza, estenuati ma felici. L’acme di questa insolita fruizione cinematografica viene raggiunto dopo una lunghissima sequenza in discoteca: trenta minuti esatti al chiuso di un locale con le luci intermittenti e i classici anni ’90 a palla. Una scena fisicamente impegnativa, al punto che per parlare con chi ti sta vicino in sala sei costretto a tapparti le orecchie e a urlare, ma all’alba ripensi a quei momenti di tumtumtum e la nostalgia ti stringe il petto. Alla fine rimetti insieme i pezzi per capire come sei arrivato in quella discoteca e ricordi cosa è successo prima di quella mezz’ora roboante: la nascita di un agnellino al tramonto ripresa in tempo reale, con luce naturale e in sottofondo musica di Mozart. È la seconda volta che chi scrive incontra “Dio” al cinema e non ringrazierò mai abbastanza Kechiche per quelle immagini di delicata potenza.