Sapete bene che sono un cattivo recensore (interpretate questa frase come meglio credete) che non risparmia stroncature. Ma voglio spendere due parole di apprezzamento per le scelte dei titoli in cartellone a Teatro Trastevere, che non sono mai state banali o piatte, anche quando lo spettacolo non è riuscito. Bisogna ammettere che in Inventaria – con i testi selezionati da DoveComeQuando – è mancato proprio l’elemento di originalità che è servito da filo rosso per presentare spettacoli tanto diversi quanto affascinanti.
L’evento si sarebbe dovuto aprire con “Malanova”, diretto e interpretato da Ture Magro, scritto insieme a Flavia Gallo. L’opera vincitrice della scorsa edizione di Inventaria non è però andata in scena, e ammetto di non aver apprezzato il modo in cui la situazione è stata gestita dall’organizzazione del festival. Fatta questa doverosa premessa, ritengo giusto invece parlare di chi c’era e, nel bene e nel male, ha contribuito alla riuscita della manifestazione.
La delusione più grande de “Il Viaggio” è stata quella di vedere due talenti del genere su un testo così platealmente mediocre.
“Il viaggio”, testo vincitore del premio di drammaturgia DCQ – Giuliano Gennaio 2016, di Paolo Bignami, è diventato quindi il primo assaggio (fuori concorso) di Inventaria a Teatro Trastevere. Debuttando con la regia di Pietro Dattola, il copione ha mostrato da subito grossi limiti: da una parte un testo infarcito di cliché, con due personaggi che non riescono a comunicare niente oltre informazioni didascaliche, dall’altra una prudenza direttiva che ha fatto precipitare una situazione in bilico. Le poche scelte registiche sono stati passi falsi e incompleti, e coinvolgere il pubblico per poi abbandonarlo sul palco è apparso più come un goffo tentativo di strappare un legame empatico agli spettatori, altrimenti narcotizzati dalla piattezza della storia raccontata, che una scelta compiuta per farli mettere nei panni dei migranti di ieri e oggi, facendogli provare umiliazione e, successivamente, alienata indifferenza.
Stroncato in toto, insomma? Assolutamente no! L’idea alla base, ovvero quella di far incontrare due donne di epoche diverse, unite dalla necessità di compiere il viaggio più importante della propria vita, potrebbe avere un grande potenziale, sviluppata all’interno di un frame diverso. Nonostante tutto Flavia Germana de Lipsis, con chirurgica perfezione tanto nell’interpretare l’accento balcanico di Petra quanto nell’enunciare con perfetta dizione i pensieri della voce universale del Migrante, insieme alla sua controparte Federica Carruba Toscano, che ha invece attinto dalle proprie origini palermitane per la costruzione della sua Silvia, sono state capaci di rendere credibili i due offensivi cartonati disegnati da Bignami, umanizzando le due protagoniste, emozionandosi e regalandoci un’interpretazione di altissimo livello. La delusione più grande de “Il Viaggio” è stata quella di vedere due talenti del genere su un testo così platealmente mediocre.
“Almost, Maine” di John Cariani, dopo aver fatto il giro del mondo, è stato portato in scena dalla Compagnia Indipendente dei Giovani Umbri.
Altra storia quella di “Almost, Maine”. Il testo di John Cariani, dopo aver fatto il giro del mondo, è stato portato in scena dalla Compagnia Indipendente dei Giovani Umbri. Samuele Chiovoloni si è approcciato al testo con gusto sensazionalmente pop, sottolineandone l’intelligente scrittura, le citazioni e i giochi di parole, che non hanno perso forza in questa edizione italiana. Jacopo Costantini, Ludovico Rohl, Giulia Trippetta e Silvia Zora si son mossi attraverso i vari quadri con tempi comici e espressività degni di superstar, regalandoci inaspettate risate e presentando un lavoro coinvolgente finito troppo presto.
I Giovanni Umbri avrebbero potuto infatti regalare un’altra mezzora di spettacolo al pubblico, almeno per marcare più esplicitamente il filo rosso che lega le storie. Stravolgere la sequenza stabilita da Cariani non ha pagato, e, una volta finito il coinvolgimento, la sensazione dominante è stata quella di aver visto un’opera che necessitava di qualcosa di più, magari un prologo che potesse condurci al tenero finale, per evitare l’effetto zapping che, per quanto non fastidioso, si è avvertito. Chissà che non ci regalino una nuova edizione di “Almost, Maine” correggendo questi dettagli. Mi metterei in prima fila.