La sontuosa scenografia materializza uno spazio centrale, coi due oramai proverbiali balconi, simmetrici, ai lati del palco. La quinta visualizza la scala del palazzo oltre l’atrio dell’appartamento, con l’immagine della famosa corte dello Spagnuolo e le sue caratteristiche rampe monumentali. Siamo in via dei Tribunali, non c’è dubbio. Le pareti bianche e vagamente scabre hanno un artato aspetto polveroso. Costosa didascalia per denunciare il senso di uno spazio che imprigiona i fantasmi del dramma eduardiano. Polvere che eravamo e torneremo. Materia disgregata, invero molto meno dei fantasmi intesi come immagini parlanti. Entità disanimate perché simbolo di identità che ebbero un’anima. Nel testo di “Questi fantasmi!”, infatti, Eduardo De Filippo si divertì a dare epiteti agli spiriti. Pasquale Lojacono è l’anima in pena, sua moglie Maria è l’anima perduta, l’amante-ectoplasma Alfredo è l’anima irrequieta e così via. Segni inconfondibili dell’ironia eduardiana, sintesi sublime di tragedia e comicità.
Polvere eravamo e torneremo. Materia disgregata, invero molto meno di “Questi fantasmi!” intesi come immagini parlanti.
Come tragica e comica è insieme la vita. Era infatti un’arte naturale quella di Eduardo De Filippo. Di parola, finissima lingua musicale napoletana, ma non di recitazione. Pressoché tutto il cast di “Questi fantasmi!” ha una formazione tecnica eccezionale. Si tratta d’altronde di attori di lungo corso. La recitazione è chiara ed efficace, restituisce la riflessione di sapore pirandelliano sulla consistenza dei fantasmi interiori. Gianfelice Imparato brilla più degli altri. Coglie con maestria il carattere liminare e lirico di Pasquale Lojacono. Traccia un personaggio tormentato ma non meschino, che mente a se stesso per non mentire fuori di sé. Rotto da un dolore più antico del dramma sociale della Napoli post-unitaria, povera e in perenne decadenza. Tormentato dal denaro non per inclinazione venale, ma per un radicale senso di insufficienza. È proprio il Pasquale Lojodice di Eduardo De Filippo, fantasma di se stesso perché per se stesso si spaura.
Vengono in mente le parole che Eduardo De Filippo e Carmelo Bene si scambiarono in dibattiti registrati e disponibili oggi in rete. Carmelo Bene elogiava nel primo il bambino che soppianta l’attore, la sua disponibilità all’innocenza come destrutturazione dell’armamentario attoriale. Del voler-dire, del voler-fare, a cui il buon teatro sostituisce il vero dire e il vero fare. Tale è Pasquale Lojodice: il bambino che vede i fantasmi. Tale è stato Gianfelice Imparato. Qualche indecisione si può invece cogliere nella prova di Maria (Carolina Rosi), a volte al di sotto della virtuale fluidità del testo. Ma non è il punto. La compagnia Elledieffe vanta da anni, attraverso e oltre l’impegno di Luca De Filippo scomparso nel 2015, di raccogliere l’eredità colossale del maestro napoletano. Un’eredità esplorata con impegno rigoroso, filologico, ma non senza la disponibilità a manipolare alcuni caratteri del testo per ottenere esiti al passo coi tempi.
Pressoché tutto il cast di “Questi fantasmi!” ha una formazione tecnica eccezionale. Si tratta d’altronde di attori di lungo corso.
In “Questi fantasmi!” visto al Teatro Argentina emerge la volontà di rafforzare il carattere di Maria. Che sul finale porta a compimento il piano di fuga con Alfredo. Si realizza un ribaltamento ulteriore rispetto alla linea testuale: i soldi che Alfredo dona a Pasquale, somma raccolta per finanziare la fuga, non chiudono il dramma. Mentre Pasquale conta commosso l’ingente gruzzolo, Maria imbocca l’uscio per l’ultima volta. Un finale femminista, annota in un’intervista Marco Tullio Giordana. Una trovata non priva di senso, che illumina un approccio al dramma che si potrebbe definire lirico. Il materiale testuale è declinato come una partitura, la compagnia come un’orchestra. Piacevolmente priva di microfonaggio, a vantaggio dell’espressiva tessitura vocale, ri-tarata sull’ampio volume del teatro. Ma il dubbio che resta risulta proprio dal senso di recitazione che la macchina scenica comunica. Non solo e non tanto per i costumi, la scenografia iperrealista, la filologia testuale.
Per tutto ciò insieme, ma soprattutto per un metodo di lavoro che lascia il testo al di fuori degli attori. Meccanismo che in altri tempi sarebbe stato definito Teatro Borghese, oggi diremmo di rappresentazione. Ogni definizione è incompleta, e non renderebbe giustizia a un lavoro comunque encomiabile per il percepibile travaglio. Ma è forse proprio la fatica percepita nell’inseguire il classico, a segnalare l’incongruenza. “Questi fantasmi!” non sono riusciti a giungere fino in fondo alle anime sul palco. Il bilancio valorizza i caratteri intrattenitivi, perseguiti col virtuosismo della compagine, non quelli radicali, profondi. Vale la pena volgere lo sguardo al pubblico. Brusii, telefonini che squillano, applausi in itinere, all’americana. Peccato. Perché la copiosa presenza di scolaresche poneva l’occasione per mettere i giovanissimi a contatto con la magia del teatro. Con quello statuto di delicatezza dell’immagine drammatica, che fa di Eduardo De Filippo il fantasma più essenziale e commovente.