Dal lato del contenuto non c’è niente che manchi. Per quanto “Radice di due” sia scritto da un uomo, la figura di Gerry riesce ad abitare negli stereotipi senza risultare banale. Grazie a una scenografia essenziale, Viviana Colais ci guida alla scoperta del mondo interiore di Gerry. Con semplici funi, che designano oggetti oppure spazi di movimento, osserviamo sbocciare la sensualità fatale da una bambina peculiarmente ingenua. Persino Mercoledì Addams rabbrividirebbe di fronte alla tenace ossessione di Gerry per la morte. Al di là della fastidiosa insistenza su schemi di pensiero, non si può non notare la determinazione con cui sta nella crisi per poi superarla. Insieme a Tommaso.
Per quanto “Radice di due” sia scritto da un uomo, la figura di Gerry riesce ad abitare negli stereotipi senza risultare banale.
La storia d’amore di “Radice di due” è costruita sui cliché. La relazione tra i due è basata su reazioni che sembrano respingersi fin dal primo incontro. Se Gerry fugge la mediocrità, Tommaso la abbraccia fino in fondo, senza remore. Resta da chiedersi perché se Tommaso non riesce a fare a meno di Gerry, sembra non fare abbastanza per tenerla con sé in maniera definitiva. A parte quando lei non può più allontanarsi. L’incommensurabilità dei caratteri delineati in scena è un potente antidoto alla stucchevolezza. A Gerry serve la mediocre pragmaticità di Tommaso come stampella, e Tommaso usa i pensieri di Gerry come antibiotico alla normalità. I cliché vengono così superati in una dialettica positiva.
La regia di Marco Zordan dà una buona forma ai contenuti del copione. “Radice di due” è una performance che funziona perché le parole sono rese da vocalizzazioni efficaci. Non sono di secondo piano le gestualità e le posture che hanno preso corpo sul palco di Teatro Trastevere. A essere espresse dai corpi sono attitudini, abitudini, ossessioni. È commovente assistere alla crescita di Gerry attraverso lo scioglimento di ipertrofie, in parte decostruite insieme ai deliri di onnipotenza adolescenziali. Sebbene prenda sempre più confidenza con lo scollamento tra i suoi desideri e la realtà, non smetterà mai di dipingere la realtà decadente in modo macabro e sognante.
“Radice di due” è una performance che funziona perché le parole sono rese da vocalizzazioni efficaci.
Dove è Tommaso in tutto ciò? È tramite la sua voce che “Radice di due” si fa narrazione retrospettiva. Alla fine di tutto, Tommaso parla del suo unico vero grande amore. In qualche modo Luca Basile con il suo corpo ci dice che il suo personaggio cambia anche meno di Gerry. C’è solo la differenza di luogo e di luci a segnalare lo slittamento di tempo, dall’azione alla narrazione e viceversa. Non è chiaro se la postura scelta per Tommaso sia abbastanza a sottolineare la mediocrità e la normalità a cui disperatamente si appella. È come se Marco Zordan non avesse riservato per Tommaso la stessa cura dimostrata per Gerry. Un’altra volta sono entrati in gioco degli opposti, ma forse non in maniera funzionale alla morale finale.
Dal basso della sua mediocrità, Tommaso sa che senza Gerry la sua vita sarebbe stata vuota. E mi sembra ingiusto non farglielo trasmettere anche con il corpo, oltre che con le parole. In fondo ogni relazione è sempre alterazione delle identità che ne costituiscono i poli. Forse un indizio di questa scelta registica è nascosta nella “Radice di due”, metafora matematica scelta da Adriano Bennicelli. Quella matematica che, per dirla con Tommaso, è puro esistenzialismo asettico. In cui i problemi veri vengono sostituiti da finte turbe di agricoltori e pastori discalculici e forse anche ciechi. Ma è solo Tommaso a restare incastrato in un uso del corpo che non rende giustizia al coraggio della sua normalità. Che si affaccia sull’abisso profondo che è Gerry, non solo per contemplarlo, ma per tuffarcisi dentro.