A pochi è venuto in mente di chiedere ad Amleto chi vorrebbe essere, come, perché e se voglia andare in scena. Ed è appunto questo il programma di “Reparto Amleto”.
Il confuso principe di Danimarca lamenta la stratificazione di innumerevoli letture, incollategli addosso col passare dei secoli. Fra tutù e calzamaglie, teschi e proiezioni edipiche, di tutto e di più si è detto di lui. A pochi è venuto in mente di chiedere ad Amleto chi vorrebbe essere, come, perché e se voglia andare in scena. Ed è appunto questo il programma di “Reparto Amleto”. Incollato alla sedia a rotelle, ammansito da qualche psicofarmaco, l’inflazionato principe oscilla fra delirio d’onnipotenza egoica e crolli emotivi, sotto il tamburo battente della domanda esistenziale. Ne emerge progressivamente un dubbio schiacciante, divertente e toccante al contempo: “Cos’è Amleto se non un ragazzino troppo piccolo per essere re, abbastanza grande da piangere la morte di un padre, con un compito più grande di lui da portare a termine?” si chiede Lorenzo Collalti.
A ben vedere il caos è solo apparente. I corpi disegnano geometrie semplici ma rigorose, con un dinamico bilanciamento di palco.
Due oziosi portantini (Flavio Francucci e Cosimo Frascella) vegliano il delirio. Un altezzoso medico (Lorenzo Parrotto), passa di quando in quando per risolvere i dubbi amleticissimi del bizzarro paziente. I compari portantini sorreggono il percorso di svelamento di Amleto, assecondandone con popolana sagacia una demitizzazione che è anche umanizzazione. Sono personaggi freschi ma molto ben costruiti, impregnati di commedia dell’arte nella loro posa e funzione arlecchinesca. Insieme al dottore, figura balanzonesca, per restare nel genere, giocano felicemente il ruolo aulico di inconsapevoli psicopompi. Sono anche figure archetipiche del buon selvaggio. In fondo, che senso ha arrovellarsi come Amleto, se la gioia di una carbonara può ripagare un lungo turno di notte?
Spinti dalla pancia, i due tessono un tappeto sonoro costantemente urlato. Il caos vocale gioca a citare schemi farseschi della commedia all’italiana, snobbata da tanto teatro contemporaneo. Ma a ben vedere il caos è solo apparente. I corpi disegnano geometrie semplici ma rigorose, con un dinamico bilanciamento di palco che fa dimenticare l’assenza di strumenti scenici all’infuori delle tre sedie.
Il reparto anonimo dell’ospedale è tutto concentrato nell’occhio di bue che illumina il re di Danimarca: è diventato il “Reparto Amleto”.
Nell’accostamento immediato tra spazio della rappresentazione e corsia d’ospedale, senza mediazioni che indebolirebbero la sovrapponibilità degli ambienti, resta chiara un’idea di teatro come cura di sé. Che funziona solo se ci si dispone a canzonarsi, a giocare col proprio io e accettarne la fluttuazione. Con colpo di mano drammaturgico, il dottore lascia che Amleto insceni la sua personale visione della tragedia. I portantini si dispongono infine al ruolo di attori, chiudendo il circolo metateatrale. Il camice verde è, sul palco e nella realtà, una maschera. Così come ogni ospedale è un teatro, ogni teatro è un ospedale.
Attraverso il sogno di essere qualcun altro, al di sotto o al di sopra del suo destino, Amleto chiude lo spettacolo in proscenio. La mano protesa in avanti, lo sguardo sovraccaricato, ricordandoci la sua più abusata caricatura, pronto a snocciolare il suo celebre “essere o non essere”. Tanto, se lo dice Amleto, deve avere un significato profondo e inatteso. Ancora una volta è riuscito a prendersi la scena. Il reparto anonimo dell’ospedale è tutto concentrato nel suo occhio di bue: è diventato il “Reparto Amleto”.