La tragedia della transessuale Elvira si è consumata in poco più di un’ora. È incredibile come a teatro, quanto nella vita, basti così poco tempo per decostruire e capire le ragioni della fine. Mentre non basta una vita per essere felici. Le ragioni di Elvira scorrevano davanti ai nostri occhi come fotogrammi.
Ricordate i visualizzatori di diapositive? Quegli arnesi in plastica in cui bastava inserire un’immagine piccola per averla restituita in un formato visibile? Dirigendo “Un anno con tredici lune”, Carmelo Alù ci ha fatto vedere che non c’è magia alcuna. Sono piuttosto degli ingranaggi meccanici in trasparenza a costituire gli eventi dell’esistenza di Elvira.
I mutamenti del suo corpo, sul suo corpo, di abiti e di postura psicologica, non sono celati dietro l’unica quinta centrale. Ad intenzioni non indagabili e non processabili, è il corpo di Elvira a farsi traduzione ed espressione massima e unica della volontà. Volontà di essere felice. Erwin prima, ed Elvira poi, ha inventato problemi per sapere cosa fosse una vita normale.
Carmelo Alù trasmette tutti i moti dell’anima attraverso un uso verace e primitivo dei corpi degli attori in “Un anno con tredici lune”.
Luci, atmosfere musicali e costellazioni di personaggi costituiscono l’architettura emotiva in cui il pubblico ha potuto esplorare l’identità della protagonista. Carmelo Alù trasmette tutti i moti dell’anima attraverso un uso verace e primitivo dei corpi degli attori. Non sempre chiara, ma comunque apprezzata, l’oscillazione tra un proferimento verbale realistico e uno parodistico, parafrasato. Come una specie di sottotesto volto a sostituire il copione.
“Un anno con tredici lune” di Rainer Werner Fassbinder non è un copione leggero, eppure scorre senza lasciar traccia, quasi. Forse a quarant’anni dalla stesura il pubblico è cambiato profondamente. Ha vissuto sulla sua pelle le gioie e i dolori dell’appropriazione del corpo, dell’appropriazione della volontà. Ha ingoiato il boccone amaro dell’irreversibilità dei nuovi processi finalmente a portata di mano.
La chiusura di ispirazione michelangiolesca, identica all’apertura, è un monito quasi moralistico. Non commiserare non significa perdere empatia. Lo spiega bene, “Un anno con tredici lune”. Quando l’identificazione con Elvira è completata, resta solo la paura di volere, e di essere felici.