Una foto di scena di “Un emploi nommé désir”.
Una foto di scena di “Un emploi nommé désir”.

La bellezza di UN EMPLOI NOMMÉ DÉSIR distrugge le barriere linguistiche

Carmelo Bene portava i suoi spettacoli, non tradotti, in Russia, e si dice che a Mosca non si facessero grossi problemi con il suo “Amleto” italofono. Può sembrare una bizzarria da teatrofili intellettualoidi, ma il teatro in lingua straniera può liberare energie inaspettate. Come avrebbe invitato a fare il leggendario otrantino di cui sopra: bisogna andare oltre i significati, verso la phoné. “Un emploi nommé désir”, almeno, ne è un felice esempio. Ma andiamo a ritroso e riprendiamoci momentaneamente i significati.

Perduto il lavoro, il cosmo di Marie crolla, la sua immagine si infrange. Specchiarsi prima di un colloquio diventa un dolore insopportabile in “Un emploi nommé désir”.

Un uomo sale sul palco e prende la parola. Sembra un’introduzione allo spettacolo. Invita a raggiungerlo sulla scena Marie, per condividere col pubblico la sua traumatica esperienza della perdita del posto di lavoro. Marie, sulla cinquantina, capello brizzolato, un accenno di make-up tutt’altro che scenografico, tentenna un po’ poi sale sul palco. Un po’ imbarazzata prende a parlare. Chiede a Christian di restare ad aiutarla: potrebbe impersonare il suo datore di lavoro, per rivivere il momento del licenziamento. Segue una tragicomica rievocazione di due anni di depressione, colloqui umilianti, drammi familiari.

In un piccolo e piacevole circolo che si chiuderà perfettamente con lo stesso giuoco delle parti, Christian Poissonneau e Isabelle Courger inscrivono una preziosa ed umile parabola di vita reale. Guardando con occhio appassionato ma psicologicamente esatto la tragedia di una cinquantenne borghese alle prese con la vergogna sociale della disoccupazione, puntano al piccolo, ma colpiscono il grande. Colpiscono il divaricarsi del vuoto esistenziale appena sotto al pelo del comune, quotidiano impegno routinario. Perduto il lavoro, il cosmo di Marie crolla, la sua immagine si infrange. Specchiarsi prima di un colloquio diventa un dolore insopportabile.

Senza proclami né tracotanza autoriale, Christian Poissonneau e Isabelle Courger insegnano la dimensione politica e taumaturgica del teatro con “Un emploi nommé désir”.

Le parole di amici e colleghi al di là della barricata, ancora assorbiti nel bulimico trotterellio indaffarato delle loro professioni, non fa che spalancare sempre più quel vuoto. Ma nemmeno le parole sagge e benevole del marito, ancora l’ottimo Christian Poissonneau prestato al divertente scambio di maschere, valgono a qualcosa. Qui si instaura il coinvolgimento diretto del pubblico, che gli attori interpellano in divertentissimi a parte: che cosa diremmo a Marie, se fossimo nei panni del marito? Cosa diremmo, se fossimo Marie, durante un colloquio di lavoro con una giovane arrogante addetta alle risorse umane?

Attraverso un gioco, magnificamente sostenuto dalla carica degli attori, la parola della platea entra nella scrittura scenica, fa lo spettacolo. Convoglia l’immedesimazione e potenzia la collettività del rito. Senza proclami né tracotanza autoriale, Christian Poissonneau e Isabelle Courger insegnano la dimensione politica e taumaturgica del teatro. Vale la pena accennare che i due svolgono da anni attività di ricerca e impegno civile nel cosiddetto Teatro d’Impresa, metodologia artistica volta a portare in luoghi di lavoro l’arte del teatro. Sono, a dire il vero, i pionieri della creazione scenica e drammaturgica come strumento di ascolto, risoluzione dei conflitti personali ed interpersonali. Il teatro, d’altro canto, è sempre luogo di analisi del conflitto: da “Antigone” ad “Amleto”, da Euripide a Brecht.

“Un emploi nommé désir” è una chicca che sono felice di aver trovato e scartato, un frutto piccolo e prezioso.

Quel conflitto è radicalmente umano ed interiore: tragedia del linguaggio che nulla può scalfire nel muro nero che ci abita e separa in noi stessi. Un dramma che non ha immagine, perché costringe alla demolizione dell’immagine di sé: così la scena è priva di tutto se non di due sedie. Semplici piedistalli su cui porre forme di vita da indagare al solo scopo di offrire loro la parola che, così restituita al soggetto, dignificata dalla rappresentazione che è condivisione con la platea, torna ad avere una carica vitale.

Non stupisce la citazione del titolo che rimanda al dramma di Tenesse Williams “Un tram chiamato desiderio”. La prospettiva che spinge Marie a portare sulla scena la propria croce è proprio il recupero del desiderio. Se la depressione, che è la caduta del desiderio, la vorrebbe nascosta a casa davanti ad una tv, Christian Poissonneau e Isabelle Courger la prendono per mano e la portano a teatro, sotto gli occhi di tutti. “Un emploi nommé désir” è una chicca che sono felice di aver trovato e scartato, un frutto piccolo e prezioso che sarà raro da incrociare per i teatri d’Europa. Se vi capita, mangiatene tutti.

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