“Zan” (Uccidere) si serve di uno stile ossimorico, che si oppone al suo contenuto, finendo di contro per esaltarlo.
“Zan” è la a storia di un irrequieto ronin (un samurai senza padrone) che nel turbolento Giappone di metà ‘800, quando il paese sta attraversando una violenta fase di transizione, cerca di rifarsi una vita a Edo, l’attuale Tokyo, lavorando in una fattoria. Sul suo cammino incrocia la giovane contadina Yu Aoi originaria del suo stesso villaggio.
Per onestà va detto che di questa storia non mi interessava niente prima di entrare in sala e sicuramente continuerà ad essere così, ma il regista, applauditissimo alla proiezione stampa, cattura lo sguardo e l’interesse anche di chi, come il sottoscritto, per affinità elettive si tiene lontano da samurai, kimono e katane. Il valore innegabile del film è tutto racchiuso in quello che parrebbe un glossario di un manuale cinematografico. La regia seleziona campionature esemplari di grammatica filmica, accostandole senza timori e disattendendo i limiti di purezza e cliché imposti dal genere.
Nell’alternanza tra azione e primi piani, la regia di Shin’ya Tsukamoto legge ad alta voce tutto l’alfabeto filmico.
“Zan” si serve di uno stile ossimorico, che si oppone al suo contenuto, finendo di contro per esaltarlo. Siamo molto lontani dalla tradizione Jidai Geki con questo film. “Uccidere” attinge dalla tradizione per ribaltarla, grazie a soluzioni formali fuori dal tempo. Nell’alternanza tra azione e primi piani, la regia di Shin’ya Tsukamoto legge ad alta voce tutto l’alfabeto filmico. Le panoramiche orizzontali in camera car si legano agli acquietati lunghi; le soggettive umide lasciano il posto a un bacio staccato sull’asse. Un sinestetico saliscendi viene costruito tra gli estremi costituiti da un accenno di (sado)erotismo e momenti di gore ed isterismo. Enfasi (tanta!) ovunque, nelle immagini e nel sonoro – quest’ultimo variegato ulteriormente da arpeggi elettronici, amplificazioni eco e rumori botanici.
“Zan” è un film di genere inaspettato come una coccinella rossa a due punti che si dirige in alto per poi, arrivato in cima, volare verso l’alto. Finalmente un esempio di regia polifonica, non scontata e soprattutto non saccente, che conosce perfettamente il proprio mezzo espressivo, funzionalizzando all’esaltazione del proprio contenuto, solo in apparenza fatto di semplicità tematica e narrativa. Shin’ya Tsukamoto riesce con il suo “Uccidere” a liberare le inquietudini del mondo moderno in un urlo indietro nel tempo, condensando tutte le armi da fuoco in una sola spada e avvicinandoci all’essenza dell’uomo.