La trama de “Il Clan” tocca il punto più oscuro della natura umana: l’incesto. Il padre-gerarca, l’ottimo Michelangelo Tarditti, perpetra lungo tre generazioni l’atto osceno per eccellenza. Oscenità è parola carnosa. Una falsa etimologia la vorrebbe derivante da ob-scenus, ciò che sta fuori dalla scena, irrappresentabile. Come in tutti i falsi etimi c’è qualcosa di verissimo. L’incesto è un meccanismo di perpetrazione dell’identico, è cancellare la variazione, affermando la totale identificazione del mondo con l’Io. La trama tematizza quest’idea: quel padre, Romero, si pone come regolatore della vita di chi lo circonda. Della moglie Berta, l’affascinante Laura Sellari, in primis. Della figlia, Angustia, interpretata con passione dalla già citata drammaturga Erika Janet Rinaldi. Questa non solo è posseduta dal desiderio fusionale del padre, ma è anche concessa in godimento a un confessore di famiglia, figura anfibia che interpella le coscienze dei personaggi, senza dimostrare alcuna rettitudine.
“Il Clan” è, sin dal titolo, un’evocazione di una verità antropologica.
Ma il ruolo dispotico si esercita soprattutto su un figlio, l’intenso Jethro Pantoja Saluzzi. In scena si preannuncia fantasma spedito in guerra dal padre-padrone, per distoglierlo dal nucleo famigliare perché alternativa fallica alla sua smisurata brama. Il suo ruolo tracciato da una presenza scenica sottile, a tratti esangue, è essenziale ad aprire una finestra nella claustrofobica sala da pranzo de “Il Clan”, attorno a cui scorre la tragedia. Con l’intervento di una zia, Alla Krasovitzkaya, Angustia intuirà l’esistenza del fratello, unica possibile via per concepire una rottura della dinamica che vorrebbe fagocitarla. Linearmente, Romero prosegue eliminando anche Berta, madre di Angustia, per cancellare un ostacolo fisico al congiungimento con la figlia. Alla sua violenza, tuttavia, non corrispondono slanci autenticamente positivi. In scena tutti uccidono, con pistolettate invisibili e metaforiche, tutti quanti.
In definitiva è un lavoro di regia molto interessante quello di Alejandro Radawski, alle prese con un materiale denso e a tratti oscuro. Una scrittura rischiosamente ipertragica che a volte supera la linea della pesantezza. In eco alla parola, la dinamica gestuale punta a instaurare un senso di irrequieta immobilità, di consapevolezza circa l’impossibilità di cambiare. Movimenti lenti e paralleli, sguardi che scorrono senza mai incrociarsi né pescare all’altezza del pubblico. Occhi chiusi in un piano oscuro, insondabile. Una luce liquida che rimbalza sulle pareti candide del Teatro di Documenti crea l’impressione dell’immoto fondale di un mare che ha lasciato la felicità in superficie. “Il Clan” è dopotutto, sin dal titolo, un’evocazione di una verità antropologica. Un flusso ancestrale di autoidentificazione scorre nelle anime offese e chiuse in sé stesse, pronte solo ad affermarsi a spese di un gruppo sottomesso. Una critica dura e mai inattuale al patriarcato.