La cucina come scena globale del confronto-scontro tra famiglie, coinquilini, amici, amanti. Questa la scelta chiara ed efficace attorno a cui ruota l’ora danzante dello spettacolo. La cucina è anche un buon vettore transculturale, nel mondo globalizzato, e può divenire condensatore scenico significativo per un linguaggio delle emozioni universale.
Se si potesse parlare di trama, avrebbe una vocazione all’intero, a delineare una cosmogonia: i primi movimenti inscenano una lite, un caos primordiale da cui tutto muove e a cui tutto ritorna. I movimenti della compagine, coreografati da Marisa Ragazzo e Omid Ighanì, si articolano fra punti corali e assoli, mimando un processo pendolare tra identificazione e individuazione.
Ciò che colpisce maggiormente è l’unità nella diversità: ogni danzatore offre il proprio linguaggio in un dispositivo che globalmente rispecchia la multiculturalità delle migliori avanguardie coreografiche. Così si confondono accenti tribe e urban, attimi più solenni e intimi con fraseggi cupi e nervosi.
“Nelle cucine si parla d’amore, si urla l’incomprensione e la denuncia della solitudine, si spezzano le parole nel momento dell’addio… ma sempre si parla dell’amore”.
L’espediente dell’ibridazione, che a nulla varrebbe senza la preparazione tecnica indiscutibile della compagnia di lungo curriculum, sfrutta felicemente quella specifica vocazione alla corporeità che il “teatro di prosa” ormai invidia sempre più alla danza. Per quanto una distinzione di genere avesse più senso in un panorama quanto mai – evvivaddio! – contaminato.
Le pulsioni umane possono essere dunque felicemente simboleggiate nella lingua non rappresentativa, o per lo meno non didascalica, del corpo. Ma lo spettacolo offre anche il percorso opposto: dal gesto verso la parola, di cui DaCruDance non aveva ancora fatto uso negli spettacoli precedenti. La voce sorge lentamente dal gesto.
In principio è impercettibile, un semplice muoversi delle mascelle a labbra serrate. Quasi a dire che la voce è solo modulazione del movimento stesso. Infine esplode una babele di discorsi, indirizzati spesso al vuoto, mentre la musica si abbassa. Il danzatore diventa così a pieno titolo attore-agente della parola. Il tappeto sonoro fluttua tra l’idea di soundtrack e quella di copione.
Ciò che questa manifesta ricerca dimostra è il desiderio profondo di comunicare, con tutto l’arco possibile dell’espressività umana, intorno e dentro alla quotidianità, presentificata appunto nella metafora della cucina.
“Parole. Parole. Un fiume in piena… ognuna diversa dall’altra… lunghe ed elastiche come alghe, s’impossessano della bocca a pronunciare eternamente, e la rendono chiusa e appuntita nell’attimo in cui diciamo MAI”.
Tornando al titolo, siamo ora più prossimi a capire l’uso della parola “teoria”. Se la cucina è anche una fucina, luogo di preparazione e nutrimento concretissimo dell’emergenza corporea, essa diviene anche luogo di inscenamento per eccellenza. Nelle sue mura tutto il repertorio dell’umano nel suo relazionarsi è offerto allo sguardo.
Teoria deriva da theōréō, che è dal greco antico “osservo”. Il tavolo di “TheKithcenTheory” è così un palco nel palco. Un luogo di rivelazione elevato a pieno titolo tra i molti tavoli dell’iconografia artistica. Viene in mente il tavolo caravaggesco della “Vocazione di San Matteo”, a sua volta metafora del tavolo dove la Parola viene spezzata.
Non è certo solo un tema cristiano, ma è una figura generale della cultura occidentale e del ruolo dell’amore nella sua fondamenta storico-filosofiche. Viene in mente anche il tavolo operatorio, quando ripetutamente i danzatori vi si stendono sopra. Lì sopra il corpo è spezzato, descritto. Offerto nel momento in cui la lotta della comunicazione miete vittime quotidiane.
“TheKITCHENtheory” è decisamente un entusiasmante esempio di elevazione dell’hip hop dal circuito del consumo di massa. La sublimazione non-accademica guarda finalmente ai linguaggi quotidiani e popolari come espressione onesta e feconda. E anzi come unica via per parlare senza retorica delle emozioni oggi.